«Ho fatto la storia in Europa, ora è il momento di fare la storia anche in Arabia Saudita». Sono le parole pronunciate da Roberto Mancini nel suggestivo video col quale annunciava di essere passato nel giro di due settimane da commissario tecnico della nazionale italiana ad allenatore di quella saudita, i falconi verdi, squadra che rappresenterà a livello internazionale il movimento calcistico più ambizioso e ricco al mondo. Dunque, che storia va a fare (e raccontarci) Mancini da lì? E con quali soldi, quali risorse?

Saudi Aramco

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Gli ultimi anni di crisi energetica e guerra sono stati una manna per l’Arabia Saudita. La compagnia petrolifera di stato Saudi Aramco ha fatto 161 miliardi di dollari di profitti nel 2022, i più alti della sua storia. Quei profitti sauditi hanno un prezzo globale: Saudi Aramco, sorgente primaria delle risorse con cui lo stato pagherà lo stipendio del Mancio, è il principale emettitore di gas serra al mondo.

Può sembrare pedante e tedioso ricordarlo e forse questa è la parte del discorso che piacerà meno al permaloso Mancini («sono stato trattato come il mostro di Firenze», ha detto dopo le dimissioni) ma la crisi climatica mette a rischio le basi della civiltà umana, metà di questo rischio è causato da sole 25 grandi aziende fossili, in cima a questa lista c’è Saudi Aramco.

Il contratto di Mancini come allenatore dei sauditi dura fino al 2027. In parallelo, proprio fino al 2027, il piano industriale del gigante di stato saudita è continuare ad aumentare la capacità estrattiva di petrolio, fino a 13 milioni di barili al giorno. Ogni singolo pezzo dello stile di vita saudita che vedremo nei prossimi anni attraverso i canali social dei più grandi calciatori al mondo viene pagato così: il 40 per cento del Pil è greggio, l’80 per cento delle esportazioni sono greggio.

Petrolio, tanto petrolio, sempre più petrolio. Un’associazione quasi automatica, che il calcio è chiamato a spezzare nella propaganda perché, per ora, i sauditi non danno grandi segnali di volerlo fare nella realtà.

Gli influencer

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L’avanguardia dell’esodo dei calciatori fu Cristiano Ronaldo a fine 2022: poco dopo, su Twitter aveva detto ai suoi 109 milioni di follower: «Riyadh è uno dei migliori posti dove abbia mai vissuto, con i ristoranti di maggiore qualità. È per questo che sono qui: mi piace vedere cose nuove, provare cose nuove, vedere il futuro che questo paese sta costruendo».

Le quattro squadre di proprietà del fondo sovrano Pif (Al Nassr, Al Hilal, Al Ittihad e Al Ahli) non hanno comprato solo le prestazioni di Ronaldo, Benzema, Koulibaly, Kanté, Veiga, hanno comprato il loro pubblico e la loro credibilità. La Saudi Pro League è economia dell’attenzione su vasta scala. Li hanno comprati per fargli raccontare, attraverso il calcio, la storia di un paese.

Simon Chadwick, docente e ricercatore di Skema Business School, è uno dei principali osservatori dell’uso politico e reputazionale del calcio nei paesi del Golfo. «Il football è una lingua globale, indirizza la nostra opinione verso i paesi molto più che le loro politiche, porta legittimità, abbassa l’asticella delle domande. La chiamo "miopia calcistica", se sei membro legittimo della comunità del calcio, sei anche membro legittimo della comunità dei paesi».

Non a caso i contratti della Saudi Pro League non prevedono solo prestazioni sportive, ma anche post sui social e un numero minimo di giorni di residenza. Da Mancini in giù, sono stati tutti assunti per essere influencer, ambasciatori di un certo modello di sviluppo.

Rinascimento o sportwashing?

Ci sono due letture possibili di questa storia. La prima potremmo definirla «rinascimentale» (per usare le parole di Matteo Renzi) o «Vision 2030» (per usare quelle di Mohammad bin Salman, principe ereditario, ideologo capo, volto della nazione e dominus di tutto quello che accade in Arabia).

Secondo questa storia, calcio, golf, Formula 1, turismo, grandi eventi sono parte della transizione, il piano saudita di cambiare la propria economia petrolifera.

La seconda lettura, complementare, è quella dello sportwashing: calcio, golf, Formula 1, turismo e grandi eventi servono a occultare il mancato rispetto dei diritti umani, le persecuzioni di donne, omosessuali, dissidenti, minoranze, per non parlare dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi nel 2018.

Specchietto per le allodole

Però c’è anche una terza lettura, meno citata. L’Arabia Saudita userà il calcio per nascondere il fatto che non c’è nessun cambiamento in atto, nessuna transizione, nessun piano B rispetto al petrolio. 

Il piano Vision 2030 di diversificazione degli investimenti è partito nel 2016, «siamo praticamente a metà strada e non abbiamo visto grandi cose», ha spiegato alla DW Manfred Stamer, economista di Allianz Trade specializzato in medio oriente. La ripartizione del PIL tra attività petrolifere e non petrolifere non è cambiata in questi anni, «raggiungere gli obiettivi al 2030 non è particolarmente realistico». I fatti dicono che l’Arabia ha ancora 60 anni di petrolio da estrarre e non sta mostrando segni di voler rallentare.

Negli anni in cui la crisi climatica diventerà sempre peggiore, questo sarà un problema reputazionale. Mancini, Ronaldo, Benzema e quelli che verranno dopo di loro sono stati scelti per essere i normalizzatori di questo problema. Nascondere il petrolio e mostrarci la bella vita che quel petrolio paga.

Maurantonio Albrizio, direttore ufficio europeo di Legambiente, è uno dei massimi conoscitori della diplomazia climatica, osserva da decenni come si muovono i paesi su questo scacchiere. «Non c’è nessuna diversificazione energetica in atto, i sauditi cercano solo di consumare il più possibile entro il prossimo decennio. La comunità scientifica dice: keep it in the ground, lasciate il petrolio non estratto nel suolo, ma il loro piano rimane “pochi, maledetti e subito”, anche perché hanno un costo di estrazione più basso rispetto ad altri paesi».

Una vecchia amicizia

Il legame tra calcio e combustibili fossili non è ovviamente una novità dell’estate 2023. Secondo un’analisi di The Athletic, 16 delle 25 aziende fossili più grandi (e otto della top 10) hanno sponsorizzazioni attive o possiedono squadre di calcio.

La novità saudita è la scala dell’impegno, aver sostituito il tentativo degli anni Dieci di Abu Dhabi o Qatar di sedersi al tavolo degli europei comprando squadre con quello di costruirsi un altro tavolo tutto loro del quale sono i padroni di casa. Il piano di sviluppo del calcio saudita si spinge fino alla metà del prossimo decennio e passa dall’ambizione di organizzare una Coppa del Mondo nel 2030 o nel 2034. «Negli ultimi anni il presidente della Fifa Infantino non ha incontrato nessuno spesso quanto ha incontrato bin Salman», fa notare Chadwick. Saranno gli stessi anni in cui il problema di pr climatiche dell’Arabia Saudita diventerà sempre più grande.

Come giustificare il proprio stile di vita, il proprio ruolo nel mondo, la propria dipendenza dai combustibili fossili proprio mentre gli eventi estremi si intensificheranno? La crisi climatica non sarà quella che vediamo oggi: avremo passato un paio di tremendi anni di El Niño (che amplifica il riscaldamento antropogenico), nel giro di un decennio avremo superato la soglia di 1.5°C di aumento della temperatura, il mondo potrebbe passare dalla fase della paura a quella della rabbia, e questo sarà un problema per un paese come quello saudita, che si troverà nella stessa posizione in cui è oggi, con quasi metà della propria economia basata sulle fonti fossili.

Ed è questa la posizione di complessa responsabilità in cui si troveranno professionisti come Mancini, assunti e pagati per prestare la propria reputazione professionale al servizio dell’economia dei combustibili fossili.

Il poliziotto cattivo

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Per capire la novità rappresentata dalla Saudi Pro League bisogna spostarsi di qualche migliaio di chilometri, a Dubai, negli Emirati. Qui a novembre si terrà Cop28, il vertice Onu sui cambiamenti climatici. Sarà l’occasione perfetta per vedere in azione la dinamica diplomatica che da anni mettono in atto Emirati Arabi e Arabia, poliziotto buono e poliziotto cattivo delle fonti fossili.

Dietro le quinte, i negoziatori sauditi lavorano per far saltare i tavoli, ammorbidire le risoluzioni, spostare più in là nel tempo gli impegni. Poi arrivano gli emiratini e ricuciono, forti di una posizione più credibile.

Pur con tutte le criticità del caso, gli Emirati hanno investito in energia pulita, ospitano la sede dell’Irena (l’agenzia internazionale sulle rinnovabili), hanno visto il maggior incremento globale di solare ed eolico dell’ultimo decennio. Non stanno abbandonando i fossili, ma si stanno preparando a farlo.

L’Arabia Saudita no, oltre la propaganda rinascimentale si è dedicata principalmente a progetti distopici come l’organizzazione dei Giochi asiatici invernali nel deserto del 2029.

Come spiega Chadwick: «Negli Emirati hanno iniziato a pianificare il futuro 15 anni fa, mentre i sauditi puntano al consolidamento dell’esistente dal punto di vista dell’energia, e il calcio è una leva fondamentale per riuscirci. Bin Salman vuole mettere il suo paese al centro di un nuovo ordine mondiale, diventare un hub tra Asia ed Europa».

Il calcio è espressione di questo progetto, ma le risorse vengono sempre dallo stesso pozzo, il petrolio. Ed è curioso che nello stesso anno, il 2030, l’umanità rischia di rendersi conto di aver fallito i proprio obiettivi a medio termine per contenere l’aumento di temperature, mentre il regime saudita potrebbe prepararsi a ospitare il Mondiale in casa, la grande festa di chiusura di un decennio fossile in cui potremmo esserci giocati il futuro. 

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