Questa è Areale, la newsletter di Domani su temi, problemi, soluzioni e speranze per un mondo sempre più caldo. Gli ingredienti di questo numero sono il consumo americano di carne, il populismo degli alberi, la corsa al litio, la bandiera dell’Antartide e la birra rovinata dal clima.
Ciao lettrici e lettori di Domani,
questa è Areale, la newsletter su temi, problemi, soluzioni e speranze per un mondo sempre più caldo. Tra gli ingredienti di questo numero ci sono il consumo americano di carne, il populismo degli alberi, la corsa al litio, la bandiera dell’Antartide e la birra rovinata dal clima.
Chi vuole togliere l'hamburger agli americani?
Non Joe Biden, sicuramente. Il presidente degli Stati Uniti sta facendo sfoggio di un certo radicalismo sulle questioni ambientali (e non solo ambientali, ovviamente), ma non si è mai spinto a ipotizzare una dieta vegetariana per gli americani. Eppure, per una settimana, diversi commentatori e politici repubblicani lo hanno accusato di essere un «hamburglar» (il gioco di parole però è carino), di volere un 4 luglio con i cavoletti di Bruxelles alla griglia e la birra a base di piante (va detto che i cavoletti di Bruxelles sono ottimi e che la birra è già a base di piante). Dico spesso che la transizione ecologica è anche conflitto culturale, il consumo di carne è una delle linee di quel conflitto e molti commentatori conservatori americani, in mancanza di argomenti migliori, hanno scelto un'immaginaria trincea politica del beef. Not gonna happen in Texas! (Greg Abbott è il governatore del Texas).
Ma cosa era successo?
Lo ha ricostruito il Washington Post e c'entra il Daily Mail, un tabloid britannico non famoso per la sua accuratezza. In un articolo sul piano per dimezzare le emissioni annunciato da Biden, il Daily Mail ha pescato uno studio dell'università del Michigan che presentava vari scenari di decarbonizzazione. In uno di questi c'era l'ipotesi (puramente accademica) di limitare il consumo di carne a quattro libbre (1,8 kg circa) all'anno a persona. Quell'ipotesi è diventata un grafico e un titolo a effetto del Daily Mail, che sono entrati in circolo nella conversazione americana come vere policy di Biden. Non lo erano.
Certo, non ci sarà una vera transizione ecologica senza intervenire sul consumo di carne: gli americani ne mangiano circa 100kg all'anno a testa, il 30 per cento della terra non ghiacciata del mondo è coperta da pascoli, due terzi delle emissioni di gas serra agricole vengono dal bestiame. Ma il punto è che Biden non l'aveva mai detto o pensato ed è uno schema che dobbiamo prepararci a vedere sempre di più.
Bonus: la piattaforma di ricette Epicurious ha annunciato che sul sito, nelle newsletter e su Instagram non si parlerà più di carne.
Il populismo degli alberi
Ci sono due strade per ridurre la Co2 dall'atmosfera. La prima è tagliare le emissioni di fonti fossili, smettere di bruciare cose per vivere. La seconda strada è l'assorbimento di carbonio della natura. La prima implica costi, strategie, politica. La seconda ci permette di puntare sul lavoro organico di suoli e foreste. Sarebbe bellissimo poter «appaltare il compito» ma, per usare le parole di un efficace titolo di The Conversation, «non ci sono abbastanza alberi e non ce ne saranno mai».
Eppure gli alberi non sono mai stati così politicamente spendibili, perché tutti li amano e nessuno si oppone a un nuovo albero, o a 60 milioni di alberi, quelli che saranno piantati in Italia nei prossimi anni, o a un miliardo di alberi, o a mille miliardi di alberi. L'afforestazione come decarbonizzazione vive un momento di hype incontrastato da qualche anno e questo è un problema, perché rischia di illuderci che si possa percorrere la strada facile, bella e verde di coprire il mondo di nuove foreste e anche di convincerci di avere un margine che – nella realtà – non esiste. Per ridurre le emissioni bisogna tagliarle, dare troppo peso a quello che possono fare i carbon sink come le foreste è una scorciatoia.
Il populismo degli alberi è stato ricostruito in questo resoconto della Yale School of the Environment. Nel 2019 l'Etiopia ha battuto il record mondiale di alberi piantati in un solo giorno, 350 milioni. In Pakistan è stato lanciato lo «tsunami da un miliardo di alberi», poi diventati dieci. La Cina vuole creare una Grande Muraglia verde da 35 milioni di ettari, Shell (Shell!) vuole piantarne 5 milioni. Il World Economic Forum ha lanciato un piano da mille miliardi di alberi, sostenuto da 300 aziende e ispirato da una famosa ricerca dell'Università di Zurigo che proponeva di riforestare 900 milioni di ettari nel mondo per risolvere la crisi climatica. La corsa agli alberi è fotogenica, è un'ottima media opportunity, ha dato vita a un talvolta opaco mercato dei crediti di carbonio ma, oltre all'illusione che portano nella vita umana le false soluzioni, può essere anche ecologicamente nociva.
Per assorbire carbonio serve l'albero giusto al posto giusto e non sempre ci sono capacità e strumenti per fare questa valutazione. Quando aziende e governi piantano alberi senza una solida base scientifica e consapevolezza del contesto possono danneggiare ecosistemi, prosciugare riserve d'acqua, minare il diritto alla terra dei popoli indigeni e anche – in alcuni casi – aumentare le emissioni. È da poco uscita un'inchiesta di ProPublica su come la corsa ai crediti di carbonio in California da parte delle aziende abbia fatto aumentare le emissioni invece di ridurle. Spesso, come successo in Sudafrica, vengono piantate specie aliene e resistenti come eucalipti e pini, perché crescono in fretta e senza problemi, ma con effetti ecologici negativi. Inoltre, le foreste non sono eterne, anzi, sono sempre più soggette alla crisi climatica, soffrono di incendi e parassiti e quando bruciano o muoiono restituiscono carbonio all'atmosfera. Piantare alberi andrà sempre benissimo, finché non viene venduto come una soluzione alla crisi. La priorità è proteggere le foreste che esistono. Per il resto, in una crisi climatica nella quale il fattore tempo è tutto, bisogna tagliare emissioni e non chiedere alla natura di fare il lavoro per noi.
L'anima diffidente del Piano nazionale di ripresa e resilienza
A proposito di hype, c'è al contrario una delusione sempre più percepibile nel mondo ambientalista italiano sulla grande occasione ambientalista di questa generazione, il Piano nazionale di ripresa e resilienza elaborato dal governo Draghi. Facciamo Eco, l'unica componente Verde del Parlamento, si è astenuta e su Domani Rossella Muroni ha spiegato perché: «C'è poca ecologia». Ieri Wwf, Greenpeace, Legambiente, Kyoto Club e Transport & Environment hanno fatto partire un comunicato congiunto pieno di perplessità. L'opinione generale è che manchino anima e visione, come se l'ambientalismo di governo di Draghi e Cingolani non fosse entrato in sintonia con i bisogni ecologici del paese. Le critiche più comuni sono: non c'è una governance ambientale, ci sono ancora i sussidi ambientalmente dannosi, non c'è finanza verde, c'è poca visione sulle rinnovabili, poco trasporto locale, molta ricerca futuribile e troppo gas.
Sembra, infine, ci sia in generale un certo pregiudizio nei confronti di vento e sole in quanto fonti rinnovabili «intermittenti». Lo ha ribadito Cingolani nella sua intervista a Repubblica: «Un sistema basato su eolico e solare è per definizione discontinuo».
La mappa del futuro
Ma quindi? Come la mettiamo con questa discontinuità di sole e vento? Nelle giornate nuvolose con l'aria ferma dobbiamo rassegnarci al gas per accendere la luce? C'è una partita che conta più di tutte su questo fronte ed è quella sugli accumuli, cioè le batterie che stoccano l'energia e la rendono disponibile quando non ci sono vento e sole. Nel Pnrr sono inserite (insieme ad altri sviluppi tecnologici sulle rinnovabili) in una voce da 1 miliardo di euro. A questo proposito, guardate questa infografica, Frank Jacobs su The Big Think l'ha definita una mappa del futuro. Sono le gigafactory europee in progettazione, i tentativi di creare una filiera continentale che ci renda autonomi nella produzione di batterie, sia per le auto elettriche che per lo stoccaggio di energia.
Ora questo settore è dominato dalla Cina, che produce l'80 per cento delle batterie mondiali. Pechino per altro fa anche il 90 per cento delle componenti per i pannelli solari. È un livello di controllo paragonabile a quello dell'Opec nell'era del petrolio, uno scenario, come dire, non auspicabile. Per svincolarsi serve l'autosufficienza nella produzione di batterie. In Europa sono in fase di progettazione 30 gigafactory (la definizione è di Elon Musk, «fabbrica di gigawatt», poi adottata da tutti), con due poli in Italia, per passare dal 7 al 31 per cento della capacità mondiale in dieci anni. Valore potenziale: 35 miliardi di euro nel 2030, valore occupazionale: 115mila posti di lavoro. Nel 2017 l'Unione europea ha lanciato la European Battery Alliance, alla quale hanno aderito 440 attori industriali. È una sfida cruciale.
Ultima annotazione su questo: in Portogallo un'alleanza di contadini ed ecologisti ha fermato un progetto di estrazione mineraria di litio nel Montalegre per preoccupazioni di impatto ambientale. Il litio è il materiale base delle batterie, oggi l'Europa può quasi solo importarlo e la sua domanda crescerà di 18 volte nel 2030 e di 60 volte nel 2050.
La bandiera dell'Antartide
Chi è sensibile ai cambiamenti climatici non può che tifare per l'Antartide. Ma qual è la bandiera di noi tifosi del continente ghiacciato? Non ne esiste una ufficiale, l'Antartide non ha sovranità esclusiva, non c'è nessuno che abbia titolo a decidere. Però ce ne sono diverse non ufficiali, tra cui questa è quella di maggior successo.
L'ha creata un barista di una stazione di ricerca, Evan Townsend, usando un quaderno e la stoffa di vecchie tende per i suoi esperimenti grafici. Il simbolo al centro è per metà una montagna innevata e per metà una bussola, omaggio alla geografia dell'Antartide e agli esploratori che l'hanno mappata. Viene oggi usata in diverse basi, è un segno di appartenenza riconosciuto. Ha detto Townsend: «È facile per le persone come me dire: io sono antartico, ma non dovrebbe essere un sentimento esclusivo. La bandiera è un invito ad appartenere all'Antartide anche se non si è mai stati in Antartide».
«Il futuro della birra è qui e fa schifo»
Per sensibilizzare le persone meno preoccupate dalla crisi climatica, diversi attivisti a un certo punto menzionano la birra. Una ricerca pubblicata su Nature nel 2018 diceva che la crisi climatica avrebbe fatto salire i prezzi degli ingredienti base e modificato in peggio la biochimica e il sapore. Una birra cara e pessima, insomma. Il birrificio New Belgium ha portato questo concetto un passo avanti e ha provato a creare la birra brutta che rischiamo di bere, una mossa di marketing e sensibilizzazione. Si chiama Torched Earth.
«Il futuro della birra è qui e fa schifo», si legge nel comunicato stampa. «Se non hai un piano di adattamento climatico non hai nemmeno un business plan», ha detto il Ceo Steve Fechheimer. L'hanno messa davvero in vendita. Costa 39.99 dollari perché, appunto, non solo avrà un sapore orribile ma sarà anche più cara. L'anno scorso la New Belgium ha anche prodotto la Fat Tire, la prima birra carbon neutral d'America (l'azienda, a dispetto del nome, ha sede in Colorado).
Per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui (e per essere iscritti!). Se avete consigli, critiche, incoraggiamenti, messaggi di affetto incondizionato, consigli su birre ecologiche o disegni di bandiere da mostrarmi, scrivete a lettori@editorialedomani.it.
Buon fine settimana!
Ferdinando Cotugno
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