- Usando soldi del Pnrr, Bologna diventerà la città europea con la più grande flotta di bus a idrogeno, una forma di decarbonizzazione inefficiente e piena di incognite
- Per Michael Liebreich, fondatore del centro studi Bloomberg Nef, usare l’idrogeno verde per decarbonizzare il trasporto pubblico è come tagliarsi i capelli con un coltellino svizzero. Si può fare, ma perché, quando ci sono mezzi molto più tecnologicamente adatti?
- L’idrogeno sostenibile è caro, ha bisogno di rinnovabili su una scala che oggi in Italia non c’è e ha costi elevati di manutenzione. Caratteristiche che rischiano di scaricarsi sui cittadini.
«Con un coltellino svizzero puoi tagliarti i capelli, puoi potare un albero o puoi sostituire uno pneumatico della tua bicicletta, ma non lo fai. E il motivo per cui non lo fai è che c’è sempre qualcosa di più economico, efficiente, sicuro e facile da usare». Sono le parole scelte da Michael Liebreich, fondatore del centro studi Bloomberg Nef, proprio al Congresso mondiale sull’idrogeno a Rotterdam, per spiegare quanto fosse «pericolosa» l’idea di usare questo vettore l’ energetico per il trasporto pubblico.
Ma questa è esattamente la scelta del comune di Bologna, che ha deciso di acquistare 127 autobus a idrogeno nel suo percorso di decarbonizzazione, usando 90 milioni del Pnrr. I primi 34 dovrebbero essere in attività già tra due anni.
Sostituiranno inizialmente autobus alimentati a gasolio di classe euro due e tre, poi gli altri a gasolio e metano, per un risparmio stimato dal comune del 15 per cento rispetto alle attuali emissioni in dieci anni. In teoria un pezzo ben fatto di transizione urbana, ma nella realtà è un processo nel quale conviene guardare bene dentro, perché significa proprio tagliarsi i capelli col coltellino svizzero.
Senza precedenti
In Europa su quasi 15mila autobus circolanti, solo l’1 per cento è a idrogeno, nel 2021 non ne è stato immatricolato nessuno, contro quasi 200 elettrici. «Bologna è la prima città europea a fare un investimento così sostanziale sugli autobus a idrogeno per il trasporto pubblico», spiega Carlo Tritto di Transport&Environment.
Anche la città di Montpellier, in Francia (con dimensioni ed esigenze paragonabili al capoluogo emiliano) aveva scelto questa strada ma poi ha lasciato perdere dopo aver fatto uno studio di fattibilità. E le ragioni sono due: costi ed efficienza.
Ci sono settori nei quali l’idrogeno sarà una strada obbligata o quasi, perché non ci sono alternative: industria pesante (acciaio, vetro, cemento), trasporto marittimo, trasporto aereo. Saranno l’ultima frontiera della decarbonizzazione, i settori più difficili in cui abbattere le emissioni.
«Per il trasporto pubblico, i veicoli elettrici a batteria sono una soluzione più efficiente ed economica per ottenere lo stesso risultato», spiega Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr. Inoltre, usando l’elettricità prodotta da rinnovabili in modo diretto la decarbonizzazione è certificata, mentre per l’idrogeno bisogna prima vedere con quale materia prima viene prodotto.
L’idrogeno molecolare infatti non esiste sulla Terra: le sue emissioni dipendono da come viene fabbricato. Oggi il 95 per cento dell’idrogeno prodotto globalmente viene dal carbone o dal gas, con un impatto di 850 milioni di tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera. A oggi la sua decarbonizzazione è ancora tutta soltanto sulla carta e non è uno scenario destinato a cambiare a breve.
Poco efficienti
Anche ipotizzando che sia verde, cioè prodotto da acqua ed elettricità rinnovabile, rispetto ai mezzi a batteria l’idrogeno ha comunque bisogno di un’infrastruttura più complessa. L’energia deve essere convertita e trasportata prima di diventare capace di spostare un autobus urbano.
È per questo che secondo i calcoli di Transport&Environment, un veicolo a batteria ha almeno l’80 per cento di efficienza rispetto all’energia usata, mentre uno equivalente a idrogeno ne ha solo il 30 per cento, il resto viene «sprecato» nel corso di tutto il processo che va dalla conversione di acqua in idrogeno, al trasporto lungo le condotte (che oggi non ci sono), alla compressione nelle bombole caricate sugli automezzi, e infine alla produzione di elettricità tramite celle a combustibile che vanno a loro volta a caricare una batteria.
Significa fare un giro molto più lungo per ottenere un terzo del risultato che si avrebbe con le batterie.
È lo stesso motivo per cui i progetti britannici di usare l’idrogeno per il riscaldamento domestico sono così contestati da accademici e ambientalisti: c’è un’alternativa più economica, funzionale ed efficiente, che in quel caso sono le pompe di calore.
Salto nel buio
«È uno spreco che rischia di riflettersi sui costi operativi e quindi sul biglietto pagato dai passeggeri. L’unica razionalità economica dell’idrogeno, in questa fase, è che gode di cospicui finanziamenti pubblici, ma il Pnrr a un certo punto finirà, e rischiano di rimetterci i cittadini», spiega Armaroli.
Inoltre, sempre ipotizzando che l’idrogeno dei bus bolognesi sia verde (e oggi, come detto, non può affatto essere dato per scontato), c’è il problema che le rinnovabili al momento non ci crescono.
«Da un lato questo tipo di usi dell’idrogeno potrebbero essere una spinta per installare più rinnovabili, dall’altro dobbiamo tenere conto del dato di realtà: non abbiamo abbastanza rinnovabili da dirottare sulla produzione di idrogeno», spiega Tritto.
È stata questa la ragione della rinuncia di Montpellier, l’unica altra città che stava seguendo una soluzione alla bolognese. Inoltre la differenza di costi sarebbe stata spropositata, 95 centesimi di euro al chilometro con l’idrogeno contro i 15 centesimi al chilometri per l’elettrico, tre milioni di euro l’anno contro 500mila euro l’anno.
Il punto è che la transizione ecologica si può fare una volta sola, soprattutto in un contesto di risorse limitate: mettere in una città come Bologna un numero di bus a idrogeno pari a quasi quanti ce ne sono in tutto il resto d’Europa rischia il lock-in tecnologico, ammanettare la città a una tecnologia costosa e piena di incertezze.
«Il settore degli autobus urbani potrebbe essere il primo ad arrivare a zero emissioni: perché è ripetitivo, facilmente programmabile, perché puoi decidere a monte dove mettere i punti di rifornimento e quando usarli con un mezzo che fa sempre lo stesso percorso. è perfetto per un’elettrificazione diretta, che a oggi è la soluzione tecnologicamente più matura da un punto di vista ecologico, industriale e climatico», spiega Tritto.
Inoltre, aggiunge Armaroli, oggi l’idrogeno rischia di essere un salto nel buio per quanto riguarda il trasporto urbano: «Non ci sono ancora modelli consolidati, non ci sono dati sufficienti per valutare accuratamente il costo infrastrutturale e quello della manutenzione dei mezzi. Fare un pieno di idrogeno non è banale per diversi motivi tecnici, a cominciare dalla necessità di idrogeno purissimo, per evitare seri problemi alla cella a combustibile».
La questione dei costi
Il problema chiave però rimangono i costi operativi di questa massiccia flotta alimentata a idrogeno. Secondo le stime di Armaroli per muovere questi autobus bolognesi servirebbero oltre 2000 tonnellate di idrogeno all’anno, che costerebbero – a prezzi attuali dell’idrogeno verde in Europa, cioè 18 euro al chilo – 41,7 milioni di euro solo per fare il pieno.
«Supponiamo che si faccia un accordo di lungo termine per forniture da rinnovabili e che l’idrogeno costi “solo” otto euro al chilo, scenario difficile da ipotizzare ma sarebbero comunque 18 milioni di euro l’anno. Sono costi di carburante almeno cinque volte superiori rispetto a flotte a gasolio. Mi chiedo quanto sia sostenibile fare scelte del genere, nell’orizzonte che, dopo l’epoca d’oro irripetibile del Pnrr, devi far fronte a tutto questo con i bilanci normali».
L’impostazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza scritto dal governo Draghi rimane la chiave di tutto: la strada di Bologna è anche la stessa scelta, seppur con numeri minori, da diversi altri comuni italiani: Catania, Palermo, Mantova, Venezia, con le stesse incognite di inefficienza, costi e manutenzione, tutte pronte a tagliarsi i capelli con il coltellino svizzero perché il governo precedente (così come quello Meloni in carica, per altro) ha scelto la strada della cosiddetta neutralità tecnologica, di fatto ostile ai mezzi a batteria come soluzione dominante nonostante sia la tecnologia più pronta, efficiente e matura per i trasporti urbani.
Così come spiegato da David Cebon, docente dell’università di Cambridge, parlando della scelta del riscaldamento domestico a idrogeno nel Regno Unito, il bus a idrogeno finirà con l’essere una scappatoia per le ragioni dello status quo e dei combustibili fossili, sempre pronti a subentrare in caso di una transizione costosa e inefficiente che rischia di scaricarsi tutta sulle tasche dei cittadini e dei contribuenti.
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