- Il climatologo di fama mondiale Carlos Nobre aveva previsto con trent’anni di anticipo gli effetti sul clima del continente che si stanno verificando: siccità più frequenti, meno piogge e aumento delle temperature.
- Sono gli effetti della savanizzazione e siamo a un passo dal punto di non ritorno. Occorre non solo azzerare la deforestazione ma mettere in piedi un piano di risanamento delle aree degradate.
- Il Brasile alla Cop-26 di Glasgow. Il governo Bolsonaro chiede denaro alla comunità internazionale per compensare gli agricoltori, ma difficilmente verrà ascoltato un paese che in questo momento è visto come paria.
Carlos Nobre, 70 anni, è uno dei massimi esperti di clima al mondo. Ha lavorato tra l’altro al rapporto 2007 dell’Ipcc (il panel Onu sul cambiamento climatico) che ha vinto il premio Nobel per la pace. Brasiliano di San Paolo, ha anche il passaporto italiano per discendenza materna (D’Urso, da Potenza), il che – dice – potrebbe tornare assai utile a breve, «perché non credo di essere in grado di reggere un eventuale secondo mandato di Bolsonaro».
Nella comunità scientifica, Nobre è lo studioso che ha previsto con 30 anni di anticipo, e purtroppo con precisione, gli effetti della deforestazione dell’Amazzonia sul clima del continente. Oggi avverte che il punto di non ritorno è vicino, vicinissimo, se non si interviene subito per fermare quella che ha battezzato la “savanizzazione” della foresta pluviale.
Professore, in un articolo del 1990 sulla rivista Science, lei aveva soltanto avanzato una ipotesi. All’epoca la riduzione della foresta era assai limitata.
Trent’anni fa il bioma originario dell’Amazzonia era ancora intatto al 93-94 per cento, nonostante l’occupazione della regione fosse iniziata già negli anni Settanta, durante il regime militare, con l’apertura delle grandi strade e la distribuzione di terre senza criterio ai coloni arrivati dal sud del Brasile. Eppure questa trasformazione di appena il 6-7 per cento della copertura forestale già ci aveva permesso di prevedere il peggio. E cioè che l’avanzata delle terre degradate per aprire pascoli e la loro interazione con l’atmosfera avrebbero fatto diminuire le piogge, allungato la stagione secca e portato a un aumento delle temperature. Il clima della savana, cioè. Chiamiamo savana quel sistema tropicale con pochi alberi ed erba bassa che quasi non esiste in natura nell’America del sud. Il nostro cerrado, cioè il bioma di transizione verso la foresta pluviale, ha una vegetazione molto più ricca della savana africana.
E oggi che oltre un quinto della foresta originaria non c’è più che cosa possiamo osservare?
Che sta cambiando il clima in Amazzonia e in vaste aree circostanti, in quasi tutto il continente sudamericano. Partiamo dai numeri: oggi la deforestazione ha raggiunto il 18 per cento del bacino amazzonico (Brasile più i paesi vicini), ma poi c’è un ulteriore 17 per cento della foresta in fase di degradazione più o meno avanzata. La differenza è che in questa seconda regione, dove magari non si è appiccato il fuoco in modo indiscriminato, ma si sono abbattuti gli alberi più pregiati oppure è cambiato il sistema idrologico a causa delle dighe o ancora le acque sono state inquinate dal mercurio dei cercatori d’oro, insomma in tutta questa area di intervento umano ancora moderato, si stanno già avendo effetti irreversibili. Il numero di specie di piante e animali è diminuito, stanno crescendo alberi diversi, c’è meno umidità quindi più facilità di incendi. Negli ultimi 15 anni le aree degradate sono state il doppio di quelle totalmente distrutte. La savana cambia il regime delle piogge, perché traspira molto meno acqua rispetto alla foresta pluviale. In tutta la regione di espansione dell’agricoltura, quella che in Brasile preme da sud verso il cuore dell’Amazzonia, la foresta già non assorbe più carbonio. È già cambiato il clima nel sudest, dove una megalopoli come San Paolo rischia di restare senz’acqua perché i bacini sono vuoti per mancanza di pioggia. Quest’anno si è visto qualcosa di inedito, gigantesche nuvole di sabbia e polvere che hanno quasi oscurato il cielo.
Gli studiosi dei cambiamenti climatici hanno individuato 15 punti di non ritorno. Ai quali l’umanità non può permettersi di arrivare, come perdere tutto il ghiaccio della Groenlandia, per esempio. L’Amazzonia a che punto è?
È certamente tra i più critici, perché i nostri modelli indicano tra il 20 e il 25 della deforestazione una strada senza ritorno verso la savanizzazione. E siamo già al 18. A quello studio di 30 anni oggi se ne sono aggiunti centinaia che lo confermano. Guardiamo come si stanno moltiplicando i periodi anomali di siccità. Un tempo avvenivano ogni 20 anni, ora ci sono due crisi ogni decennio. In natura erano solo i fenomeni del Niño e della Niña (anomalie di temperatura delle acque del Pacifico) a provocare effetti nel clima nel Sudamerica e oltre, oggi abbiamo la certezza che la riduzione della foresta pluviale sia la causa principale della diminuzione delle piogge o dei fenomeni estremi. Tutto questo va ad aggiungersi al surriscaldamento comune al resto del pianeta. Qui insomma è come se ci fosse un doppio cambiamento climatico. Ma vorrei evitare di passare per catastrofista perché ho la ferma convinzione che il problema sia politico, quindi affrontabile. Guardiamo cosa è successo nel “decennio buono”, quello iniziato nel 2004.
Gli anni della presidenza Lula e di Marina Silva ministro dell’Ambiente.
Sì. Cominciamo col dire che il 90 per cento della deforestazione è illegale e avviene su terre pubbliche o riserve indigene. Quindi è un furto bello e buono, è un problema di controlli, repressione e codice penale. In quel periodo furono lanciate politiche pubbliche efficaci di lotta all’illegalità e i risultati arrivarono. Da un massimo di foresta perduta nel 1995 di 29.000 chilometri quadrati si passò al minimo del 2012 di 4.600. Aumentarono le terre di uso esclusivo degli indios e quelle di preservazione integrale. Nel 2006 ci fu la nota moratoria della soia, con l’impegno delle imprese straniere di non comprare prodotti che arrivassero da ex aree di foresta. Funzionò per un periodo. Poi la deforestazione ha ripreso a crescere e non si è più fermata, con i picchi recenti che hanno coinciso con il governo Bolsonaro e la riduzione di controlli e multe.
Oggi il Brasile arriva ai negoziati come la Cop26 con la poco invidiabile quinta posizione al mondo per le emissioni nell’atmosfera e una pessima immagine internazionale.
È la cosa assurda è che se non fosse per gli incendi forestali saremmo messi bene, perché qui non si consumano fossili per la produzione di energia, che è quasi tutta di fonte idroelettrica. E godiamo di condizioni naturali privilegiate nel solare e nell’eolico. Invece le nostre emissioni sono addirittura sottostimate di un terzo, perché non tengono conto della degradazione della foresta di cui ho parlato ma solo della deforestazione totale e del successivo incendio del legname. Sennò saremmo al quarto posto.
Il Brasile ha promesso di azzerare la deforestazione illegale nel 2030, e lo ripeterà alla Cop26 di Glasgow a fine mese. È sufficiente?
No. Occorre un piano immediato non solo per fermarla, ma per iniziare un serio progetto di risanamento delle aree degradate. È su quelle che occorre intervenire, per invertire il processo di savanizzazione. Secondo una stima un quarto delle terre che il fuoco ha aperto per gli allevamenti e poi l’agricoltura sono state in seguito abbandonate. In parte la foresta torna a crescere da sola, ma perché avvenga occorre che siano rimaste aree intatte, a macchia di leopardo. Se invece, come in molti casi, le estensioni senza più un albero sono gigantesche la natura da sola non ce la fa. Ripiantare la foresta è caro, 1.000 dollari a ettaro, ma rigenerarla costa molto meno. Gli indios ci mostrano da millenni come funzionano sistemi agroforestali per recuperare il terreno e aumentare la fertilità. Molte cooperative agricole in Amazzonia stanno lavorando seguendo queste tecniche tradizionali. Si aiuta a far rinascere una foresta secondaria, che va benissimo perché in termini di carbonio lavora al 70 per cento di quella nativa, e intanto si usa la terra circostante per una agricoltura sostenibile, non le grandi distese sterili di soia.
Nel recente incontro di Milano, in preparazione della Cop26, il vicepresidente Hamilton Mourão ha ribadito la linea del governo Bolsonaro: i paesi ricchi mettano sul tavolo i soldi che al Brasile servono per mantenere in piedi l’Amazzonia, visto che tutti siete così preoccupati. Ha senso?
No, perché nella visione di questo governo quei soldi devono andare agli agricoltori, come compensazione perché non possono allargare le proprie coltivazioni. Ma si può? Chi può accettare un discorso simile? Persino i donatori del Fondo Amazzonia che già esiste da anni, Germania e Norvegia, hanno bloccato tutto il denaro. Alla fine io credo che la comunità internazionale non possa fare altro che aspettare – come molti di noi – che questo incubo passi, Bolsonaro non venga rieletto e che il Brasile smetta di essere un paria internazionale.
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