La Colombia sta diventando un paese sempre più interessante per comprendere l’andamento della transizione energetica globale e per cercare una risposta a una domanda difficile: esiste un futuro oltre le fonti fossili anche per i paesi produttori?

La metà delle esportazioni della Colombia è fatta di carbone e petrolio, idrocarburo del quale è il 19esimoo produttore. Il paese due anni fa ha deciso che non farà più espansioni o ricerche per aprire nuove miniere e nuovi pozzi di petrolio.

L’intenzione dell’amministrazione di Gustavo Petro era stata ribadita dalla ministra dell’ambiente Susana Muhamad alla Cop28, dove la Colombia era stata uno dei paesi protagonisti del negoziato. A Dubai era entrata nell’alleanza BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), e addirittura è tra i tredici paesi che chiedono un trattato di non proliferazione delle fonti fossili sul modello di quello che fu approvato nel 1968 contro le armi atomiche.

Il problema è quale futuro aspetta ora la Colombia, un paese in crisi idrica ed energetica, con continui blackout, una crescita economica in frenata (siamo sotto l’1 per cento)? La soluzione scelta dall’amministrazione è continuare nell’impegno di non concedere nuove licenze estrattive di combustibili fossili, puntando sulla cooperazione finanziaria internazionale per fare la transizione.

Il nuovo modello

Secondo Bloomberg, governo sta per annunciare un nuovo modello di finanziamento per la sua transizione, che potrebbe portare all’economia colombiana 40 miliardi di dollari nei prossimi anni.

«Abbiamo bisogno di una trasformazione economica gigantesca», ha detto Muhamad alla New York Climate Week, evento a margine dell’assemblea generale Onu, «questo portafoglio di investimenti andrà tutto a settori che dovranno rimpiazzare i proventi del petrolio». Energia pulita, protezione della biodiversità, elettrificazione dei trasporti sono tra i settori dove arriveranno questi soldi, che saranno gestiti da una banca di sviluppo, Inter-American Development Bank, il capofila dei paesi donatori saranno gli Stati Uniti, che dovranno convincere altri governi, banche internazionali e privati a entrare in gioco.

Il piano colombiano è ispirato a un modello già esistente, le Just Energy Transition Partnerships (JETP), che erano state inventate dal governo del Regno Unito durante la Cop26 di Glasgow, ed erano sostanzialmente dei patti tra una grande economia emergente ancora molto basata sulle energie fossili e ristretti club di paesi industrializzati e investitori privati in grado di fornire a quel paese aiuto finanziario e trasferimento tecnologico. Finora ne sono stati siglati quattro: Sudafrica (otto miliardi di dollari), Indonesia (20 miliardi), Vietnam (15 miliardi) e Senegal (1,5 miliardi). In cambio di questi soldi, i paesi si impegnano ad accelerare la rinuncia alle fonti fossili di energia.

Il patto con il Sudafrica

L’unico di questi patti a essere già operativo è quello del Sudafrica, ma si è di fatto bloccato in partenza, a causa delle turbolenze politiche, dei conflitti tra ministeri, della burocrazia e della crisi energetica, che lega ancora il Sudafrica all’uso del carbone come fonte di energia. 

La Colombia sta provando a costruire una partnership di questo tipo, imparando dagli errori fatti dal Sudafrica, quindi più agile, meno burocratica, con più aiuto tecnico dai partner. Alla finestra, secondo Bloomberg, ci sono altri paesi emergenti che sono interessati a seguire questa strada, a partire da Marocco e Filippine. Per la transizione globale, il contesto è che non solo serve mobilitare enormi quantità di risorse (e sarà quello che dovranno fare i paesi alla Cop29 di Baku) ma anche trovare il modo di indirizzarle e usarle in modo efficace.

Per la Colombia intanto c’è il tentativo di accreditarsi sulla scena internazionale come paese leader dell’ambientalismo, un tentativo che avrà la sua platea principale alla Cop16, il vertice Onu sulla biodiversità che si terrà a Calì. La credibilità però è minata dal fatto che la Colombia è da anni il paese dove vengono uccisi più attivisti per l’ambiente, secondo i dati della Ong Global Witness.

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