Pechino frena e mobilita i maggiori siti d’estrazione del paese: 300 milioni di tonnellate in più all’anno per garantire la sicurezza energetica
A remare contro l’introduzione nel comunicato finale di Cop28 dell’obiettivo del phase-out, ovvero dell’eliminazione progressiva dei combustibili fossili, non è solo il lato dell’offerta, rappresentata a Dubai da quel Sultan Al Jaber che, prima che presidente della Conferenza per il clima, è a capo della Abu Dhabi National Oil Company. Un’altrettanto poderosa frenata viene da quello della domanda, dalla Cina alle prese col rafforzamento della sua sicurezza energetica, cioè fornire elettricità a 1,4 miliardi di persone e a un gigantesco apparato industriale, logistico, commerciale e di servizi.
E così, proprio mentre alla conferenza Stati Uniti, Unione europea e stati insulari davano battaglia per far passare il phase-out, il governo di Pechino ha varato un piano per poter estrarre, in caso di necessità, 300 milioni di tonnellate supplementari di carbone all’anno. Il progetto della Commissione nazionale per la riforma e lo sviluppo, che sarà operativo a partire dal 2027, dovrà «garantire l’elasticità della futura offerta di carbone e ridurre le fluttuazioni dei prezzi».
I siti di estrazione verranno identificati nelle principali aree carbonifere del paese, nelle province dello Shanxi e dello Shaanxi e nelle regioni della Mongolia interna e del Xinjiang.
Sistema ultra energivoro
La Cina è il maggior produttore e consumatore di carbone del mondo. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (Nbs), nel 2022 ha prodotto la cifra record di 4,5 miliardi di tonnellate di carbone grezzo (+10,5 per cento rispetto all’anno precedente). Sempre nel 2022, la Cina ha importato 290 milioni di tonnellate di carbone (-9,2 per cento rispetto al 2021).
L’obiettivo ufficiale di Pechino – dichiarato dal presidente Xi Jinping – resta quello di raggiungere il picco di emissioni di CO2 nel 2030 e la neutralità carbonica nel 2060. Intanto però il carbone continua a rappresentare il 56 per cento del consumo energetico totale della Cina. Un paese ultra energivoro – per la quantità di abitanti e per le dimensioni della sua industria – nel quale il carbone è l’unica materia prima energetica disponibile in abbondanza, e dunque economica.
E quello della sicurezza energetica è un problema reale. La ferita dei ripetuti blackout che alla fine del 2021 hanno costretto al buio milioni di famiglie e fermarono migliaia di imprese in gran parte del paese è ancora aperta. A provocare quella crisi, che ha determinato lo stallo delle centrali elettriche, è stato un picco inatteso di domanda di carbone arrivato in un momento in cui i governi locali spingevano in direzione opposta, per centrare i rispettivi obiettivi di decarbonizzazione.
«Una forzatura dei ricchi»
«La Cina ha imparato la lezione dopo essersi spinta troppo oltre negli anni precedenti con gli obiettivi verdi, vedendo la fornitura di carbone e di altre fonti energetiche convenzionali interrotta o addirittura soppressa prima che ci fossimo assicurati nuove fonti energetiche», ha sostenuto ieri in una nota Xu Gao, capo economista di Bank of China International.
Sta di fatto che nelle linee guida di sviluppo economico approvate venerdì scorso dall’ufficio politico del Partito comunista cinese si afferma la necessità di «rafforzare il nuovo prima di abolire il vecchio», uno slogan che in molti hanno collegato proprio alla transizione energetica. Secondo Song Xuetao, capo analista della pechinese TF Securities, «nella decarbonizzazione, questo approccio significa che la Cina dovrà sperimentare nuove fonti energetiche affidabili prima di eliminare gradualmente il carbone e altri combustibili fossili».
In una fase di rallentamento economico, per il Pcc la priorità assoluta è più che mai il «mantenimento della stabilità sociale». Un approccio più deciso per combattere il cambiamento climatico sarà meno praticabile anche per l’uscita di scena di Xie Zhenhua, il politico che ha raggiunto un’ottima intesa con il suo omologo John Kerry, che dopo 16 anni lascerà presto il suo incarico di inviato della Cina per il clima.
«Le posizioni sulla questione sono attualmente molto contrastanti», ha constato ieri Xie. Pechino lamenta che nell’accordo raggiunto proprio da Kerry e Xie il mese scorso a San Francisco (sottoscritto poi da Biden e Xi), che la Cina vorrebbe utilizzare come soluzione a Dubai, non c’è traccia di phase-out dei combustibili fossili, denunciato come una «forzatura» dei paesi ricchi. La Cina ritiene che la sua continua espansione delle energie rinnovabili per «accelerare» la sostituzione della produzione di carbone, petrolio e gas sia il massimo che il paese si può permettere.
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