- La geotermia sfrutta il calore interno della Terra per produrre energia. Una ricerca dice che basterebbe arrivare con delle perforazioni a 20 chilometri di profondità per averne in enormi quantità
- In Antartide scoperti fiumi sotto la coltre di ghiaccio lunghi oltre 400 chilometri. La loro presenza può influenzare il processo di scioglimento delle calotte
- Le corna dei rinoceronti si sono ridotte in lunghezza e la causa è l’uomo: gli esemplari con le corna più lunghe infatti sono stati per decenni vittime della caccia intensiva
La Terra pullula di rocce che presentano temperature di circa 400°C a “soli” 20 chilometri sotto la superficie. Queste rocce potrebbero fornire al mondo energia pulita illimitata. Ma… c’è un ma… non siamo ancora in grado di arrivarvi, ma l’impresa non è impossibile.
Una possibile risorsa
La Clean Air Task Force ha da poco pubblicato un rapporto nel quale si legge che quell’immenso magazzino di energia potrebbe essere utilizzato entro il 2030, se si supereranno le problematiche che finora non hanno permesso di perforare la crosta terrestre per più di 12-13 chilometri.
Quando si supererà tale difficoltà si potrebbero iniettare fluidi dalla superficie, farli scaldare “gratuitamente” là sotto e dar loro modo di defluire in superficie sotto forma di vapore per alimentare centrali elettriche e il tutto al costo di 20-35 euro per megawattora, meno della metà del costo di quel che si ottiene attualmente con il gas.
Il gruppo di ricerca ha recentemente condotto un test in Islanda, dove per ottenere tali temperature era sufficiente perforare per tre chilometri e mezzo, grazie alla presenza di importanti serbatoi di magma, e hanno dimostrato di produrre circa cinque volte i megawatt di energia generati da un pozzo geotermico convenzionale.
I pozzi geotermici convenzionali sono quelli che sfruttano i vapori già presenti naturalmente al di sotto della superficie, i quali, grazie a perforazioni vengono a giorno. «Quando il sistema di iniezione artificiale di fluidi nel sottosuolo a profondità notevoli sarà fattibile, vi sarà una vera rivoluzione negli impianti di energia così come li conosciamo oggi», sostengono i ricercatori della Clean Air Task Force.
Non saranno necessarie, ad esempio, grandi aree per la produzione di centrali elettriche, né saranno necessarie caldaie per “bruciare” gas, oli vari o carbone e neppure complesse centrali come quelle nucleari. Secondo il rapporto infatti, saranno essenziali solo apparecchiature in grado di raccogliere il calore che vi è sottoterra, delle turbine a vapore, generatori di elettricità e impianti di trasmissione.
Purtroppo per raggiungere tali obiettivi sono necessarie «significative innovazioni tecnologiche» che riguardano i metodi di perforazione, i quali devono essere in grado di raggiungere le profondità richieste, e poi saranno necessari materiali e strumenti per pozzi resistenti a temperature di centinaia di gradi.
«Ma sono solo sfide ingegneristiche, non è necessario sperare in nuovo scoperte da realizzare» si legge nel rapporto. Oltremodo interessante è il fatto che a 20 chilometri di profondità le temperature di 350-400°C si trovano in grandissime aree del pianeta e questo renderebbe semplice «produrre energia in casa» senza complicazioni politiche che possono causare difficoltà nell’approvvigionamento.
Vapori con temperature così elevati potrebbero essere utilizzati non solo per produrre energia, ma in seconda battuta anche per produrre idrogeno per elettrolisi e altre sostanze fortemente richieste, come l’ammoniaca, per esempio.
E l’Italia in tutto questo si trova in un’area particolarmente ideale per lo sfruttamento dell’energia del sottosuolo, anche perché possiede vaste aree dove tali temperature si possono incontrare molto più vicino alla superficie che non a 20 chilometri di profondità.
I problematici fiumi antartici
Uno studio pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori dell’Imperial College London, dell’università canadese di Waterloo, dell’università Malaysia Terengganu e dell’università di Newcastle ha messo in luce l’esistenza di «un inatteso fiume che scorre sotto la calotta glaciale dell’Antartide, il quale potrebbe avere un’influenza importante sul flusso e sulla fusione del ghiaccio sovrastante, accelerando potenzialmente la perdita di ghiaccio indotto dal riscaldamento climatico».
Il fiume è lungo circa 460 chilometri, più o meno la distanza Milano-Roma in linea d’aria, e la ricerca descrive come tale fiume sia in grado di raccogliere l’acqua alla base della calotta glaciale antartica da un’area grande quanto quattro volte l’Italia. Nello studio si legge «che la base della calotta glaciale presenta un flusso di acqua più attivo di quanto si pensasse in precedenza, il che potrebbe renderla più esposta ai cambiamenti climatici».
La scoperta dei fiumi sottoglaciali si è resa possibile grazie a trasmissioni radar che sono state inviate da aerei che hanno sorvolato in lungo e in largo alcune aree del continente. Martin Siegert, del Grantham Institute dell’Imperial College di Londra, spiega: «Quando si scoprirono i primi laghi sotto il ghiaccio dell’Antartide circa venti anni fa, si ipotizzava che fossero isolati l’uno dall’altro.
Ma è molto probabile che le cose non sono cosi: si sta iniziando a capire infatti, che sotto la calotta glaciale vi sono interi sistemi fluviali interconnessi, proprio come potrebbero esserlo se non ci fossero le migliaia di metri di ghiaccio sopra di loro».
Perché è importante tutto ciò al di là della scoperta scientifica in sé? Perché l’area interessata da questa ricerca contiene ghiaccio sufficiente ad aumentare il livello del mare a livello globale di 4,3 metri se dovesse fondersi del tutto.
Quanto di tale ghiaccio si può fondere e a quale velocità, sono parametri molto legati a quanto risulta scivolosa la base del corpo glaciale. E la presenza del sistema fluviale appena scoperto e forse di molti altri potrebbero influenzare notevolmente il processo. Ma da dove arriva tutta quell’acqua?
I meccanismi individuati dai ricercatori sono due: l’acqua può arrivare da quella che si produce in superficie per la fusione del ghiaccio stesso, la quale precipita alla base del ghiacciaio attraverso fratture e crepacci oppure dal calore naturale che arriva dalle profondità della Terra. Non è da escludere come concausa anche il calore che si forma per attrito mentre il ghiaccio si sposta, sotto il suo peso, dalla terraferma al mare.
Anche in Groenlandia si conoscono situazioni di questo tipo, ma per quell’isola spiegare come si formano tali fiumi è più semplice.
Durante l’estate artica infatti, il caldo è ormai tale da fondere grandi quantità di ghiaccio superficiale e l’acqua che si produce precipita in profondità attraverso profondi crepacci chiamati moulins.
In Antartide, le temperature estive non raggiungono ancora valori tali da far fondere grandi quantità di ghiacci e quindi sarebbero da escludere processi simili a quelli groenlandesi. La causa principale per il fenomeno antartico quindi, sarebbe da attribuire al calore sottostante il ghiaccio. Comunque sia, enormi quantità di acqua dolce arriva in mare attraverso i fiumi e ciò aiuterebbe a far fondere da sotto le lingue di ghiaccio che si spingono verso il mare aperto.
Una scoperta di grande importanza dunque se si vuole avere un quadro molto preciso di quel che sta avvenendo in Antartide, perché la scoperta dimostra che non basta creare modelli che tengano conto di quel che avviene sulla superficie dei ghiacciai e in mare, ma anche quanto sta accadendo al confine tra i corpi glaciali e la sottostante terraferma.
Per prevedere le possibili conseguenze dei cambiamenti climatici nella regione l’esistenza dei grandi fiumi sotto il ghiaccio deve essere assolutamente presa in considerazione dai modelli climatici. «Se le estati dovessero diventare abbastanza calde anche in Antartide», sottolineano i ricercatori dell’Imperial College London, «tali da causare una fusione superficiale sufficiente da consentire all’acqua di raggiungere la base della calotta glaciale, questo potrebbe avere grandi effetti sui sistemi fluviali, portando potenzialmente l’Antartide a uno stato simile alla Groenlandia, dove la perdita di ghiaccio è molto più veloce.
E questo innescherebbe dei fenomeni a catena che potrebbero accelerare i fenomeni. Se il ghiaccio inizia a scorrere più velocemente quando l’acqua si accumula alla base, ad esempio, questo aumenterà l’attrito dove il ghiaccio scorre sulla terraferma, il che potrebbe aumentare la quantità di scioglimento basale e l’acqua prodotta». E va ricordato che l’Antartide ha tanto ghiaccio che se tutto dovesse fondersi i mari del mondo si alzerebbero di sessanta metri.
Corna più corte
Esaminando oltre un secolo di fotografie, ricercatori dell’università di Cambridge hanno realizzato misurazioni che dimostrerebbero che le dimensioni delle corna dei rinoceronti sono gradualmente diminuite nel tempo. Lo studio ha misurato con estrema precisione le corna di 80 rinoceronti, fotografati di profilo tra il 1886 e il 2018 e numerosi disegni precedenti al 1886. Le fotografie, conservate dal Rhino Resource Center, un archivio online di circa 3.850 immagini (in parte opere, d’arte in parte fotografie), includono tutte e cinque le specie di rinoceronte: bianco, nero, indiano, Giava e Sumatra.
È stato riscontrato che la lunghezza della corna è inequivocabilmente diminuita in modo significativo in tutte le specie nell'ultimo secolo. Le vere corna di rinoceronte sono così preziose che rigidi protocolli di sicurezza impediscono anche ai ricercatori di accedervi per studi scientifici ed è così che la ricerca ha dovuto utilizzare fotografie e disegni storici. I ricercatori ritengono che le corna di rinoceronte siano diventate più piccole nel tempo a causa della caccia intensiva.
La caccia infatti, non ha solo causato un forte calo delle popolazioni di rinoceronti, ma, stando alla ricerca, l’aver ucciso i rinoceronti con le corna più lunghe ha lasciato sul terreno animali con le corna più piccole, che si sono riprodotti di più e hanno trasmesso i loro tratti alle generazioni successive. Questo era già stato dimostrato per altre caratteristiche di altri animali, ma mai per i rinoceronti.
Oscar Wilson, ex ricercatore presso il Dipartimento di Zoologia dell'Università di Cambridge, primo autore del rapporto pubblicato su People and Nature ha detto: «I rinoceronti hanno sviluppato le loro corna per vari motivi: alcune specie, ad esempio, le usano principalmente per aiutarsi ad afferrare il cibo, altre per difendersi dai predatori, altre ancora per attaccare, quindi pensiamo che aver lasciato in eredità rinoceronti con corna più piccole sarà dannoso per la loro sopravvivenza».
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