- Il 31 ottobre comincia la Cop26 di Glasgow: una guida per sapere cosa aspettarsi, qual è l’asticella del successo e cosa può far deragliare il vertice decisivo per il clima.
- Per usare le parole di Boris Johnson, i temi chiave sono quattro: «carbone, soldi, macchine e alberi». Particolarmente importante avere certezze sull’uscita dal carbone e irrobustire la solidarietà finanziaria tra i paesi sviluppati e quelli vulnerabili.
- Molti leader globali non ci saranno, il mondo arriva al vertice sull’orlo di una crisi energetica e ancora in pandemia. Per la riuscita dell’evento, sarà decisiva la vigilanza della società civile.
Il 12 novembre sapremo. Il grande gioco politico dell'azione per il clima consiste nel mettere date certe su una lunga linea temporale (2030, 2050, 2100) per raggiungere obiettivi globali complessi e incerti, una scansione di deadline tutto sommato arbitrarie ma necessarie.
Riguardo questa architettura di sveglie fissate nel futuro, c'è un certo consenso sul fatto che la più importante sia quella che suonerà alla fine degli anni '20, «the roaring twenties of climate action», come li ha definiti detto Ursula von der Leyen, i ruggenti anni venti della transizione ecologica.
Nove anni per cambiare tutto e invertire il corso di oltre duecento anni di storia umana. L’anno decisivo per indirizzare il decennio sarebbe dunque in teoria questo, il 2021, con la sua complicata ripresa post-pandemica. Siamo alla fine di ottobre, e non abbiamo molto altro che il «bla bla bla» denunciato da Greta Thunberg a Milano. Però il 31 ottobre, notte delle streghe, inizia la Cop di Glasgow, per esteso 2021 United Nations Climate Change Conference, termine ultimo di ogni costruzione e procrastinazione.
Durerà due lunghe settimane: si parte con i capi di stato e di governo, che daranno l'indirizzo politico (ma molti di quelli decisivi potrebbero essere assenti), si prosegue con i negoziati stanza per stanza, tema per tema, e si chiude il 12 novembre. Con quale spirito e quali risultati, appunto, lo scopriremo.
«Close the gap»
La metropolitana di Londra avverte ciclicamente i passeggeri: «mind the gap». Lo slogan opposto, «close the gap», è il mantra con il quale ci si avvicina a questo vertice per il clima, chiudere il gap di ambizione tra quello che dovremmo fare e quello che stiamo facendo. Un gap che, come nell'underground di Londra, rischia di farci cadere piuttosto male.
Si, ma cosa dobbiamo fare, di preciso? Il punto chiave ce lo dice la scienza dell'atmosfera: mantenere l'aumento della temperatura sulla Terra dentro una soglia ragionevole e sostenibile, quantificata ormai in 1.5° C rispetto all'era pre-industriale. L’accordo di Parigi del 2015 aveva usato termini più vaghi, «ben sotto 2° C e se possibile 1.5° C». Nel frattempo cinque anni di ricerca hanno chiarito l'ambiguità: anche 2° C sarebbe troppo.
Al momento siamo già a 1.1° C di media mondiale e viaggiamo verso una direzione sconsiderata, che ci porterebbe tra 2.5° C e 3°C, a seconda delle stime. Se accadesse, entro la fine del secolo dieci generazioni di esseri umani avrebbero trasformato la Terra in un pianeta alieno, pericoloso, difficile da abitare. Non c’è altro che questo da fare a Glasgow, chiudere la rivoluzione industriale basata sulle emissioni di carbonio e farlo simbolicamente in una delle città che due secoli fa quella rivoluzione l'hanno incubata. Questa è la partita: tenere 1.5° C alla portata.
Da Parigi a Glasgow
Non ci sarà un «accordo di Glasgow», lo schema di gioco rimane quello costruito nel dicembre 2015 a Parigi. La casa per il clima rimarrà il trattato nel quale quest'anno sono rientrati anche gli Stati Uniti. L’obiettivo della Cop26 è ristrutturarla, quella casa, stringere viti e bulloni, giocare il secondo tempo di quella partita. Il problema dell'accordo di Parigi è che nessuno lo ha rispettato, perché il sistema era troppo aperto all’arbitrio nazionale.
Le emissioni hanno continuato ad aumentare, le temperature sono salite ogni anno, la situazione climatica si è dimostrata peggiore di quanto si temesse e quella è rimasta una storia di promesse non mantenute. Se l'obiettivo esistenziale di Parigi era tenere il riscaldamento in quella forchetta tra 1.5° e 2° C, quello pratico per arrivarci è azzerare le emissioni nette di gas serra al 2050. Dopo, non ci sarebbe più tempo.
Il principio del funzionamento pratico di Parigi è uno strumento chiamato Ndc, «nationally determined contributions», il contributo di ogni paese dalla riduzione dell'impatto climatico nel medio e lungo termine, da aggiornare verso l’alto ogni cinque anni, per abbassare la curva e portarla a zero. Gli Ndc del quinquennio dopo Parigi non erano nemmeno lontanamente sufficienti a raggiungere l’obiettivo. Sei anni sono passati, molti paesi li hanno aggiornati, altri hanno solo parlato di aggiornarli, molti lavoreranno fino all'ultimo per non presentarsi a Glasgow a mani vuote. Secondo gli obiettivi ufficiali del vertice, «i paesi sono tenuti a portare ambiziosi piani di riduzione al 2030, accelerando l’uscita dal carbone, combattendo la deforestazione, velocizzando il passaggio ai veicoli elettrici e incoraggiando gli investimenti in rinnovabili».
Boris Johnson, che ha il dono della sintesi, lo ha tradotto così: «Coal, cash, cars and trees». Di questo si parlerà per dodici giorni nella sede del vertice, o Scottish Event Campus: carbone, soldi, macchine e alberi.
Accelerazione e solidarietà
«Le due parole chiave sono accelerazione e solidarietà», spiega Luca Bergamaschi, fondatore del think tank su clima ed energia Ecco. Sono entrambe fondamentali e rispecchiano la doppia anima dell'azione per il clima: mitigazione dell'impatto e adattamento ai danni che non siamo più in grado di evitare.
La prima parte riguarda (soprattutto, ma non solo) l'ambizione delle economie più forti e più storicamente responsabili del danno fatto al clima. La seconda ci porta (soprattutto, ma non solo) nella vulnerabilità dei paesi più deboli e meno colpevoli della crisi. In materia di mitigazione l'obiettivo più urgente tra i quattro elencati da Johnson è il carbone, il combustibile nero che ha cambiato il mondo. Questa è una prima asticella da valutare, il 12 novembre: se avremo o non avremo una tabella di marcia certa per la fine del suo utilizzo. Alcuni segnali sono incoraggianti e li raccogliamo: nella piattaforma della coalizione semaforo che probabilmente governerà in Germania c’è l’anticipo della chiusura di tutte le centrali dal 2038 al 2030, mentre la Cina ha annunciato a settembre che non costruirà più centrali all'estero.
Altri segnali sono sconfortanti e non possono essere ignorati: proprio in Cina e India c'è uno shock energetico - causato dalla ripresa e dalla volatilità dei mercati - che rischia di legarle ancora di più al carbone, le estrazioni e le aperture di centrali vanno a gran ritmo.
Secondo Bergamaschi: «Terminare globalmente il supporto all’estero, come ha fatto la Cina, è un risultato possibile. Fermare la costruzione di nuove centrali in casa sembra già molto difficile. Sarebbe positiva, se non una data, almeno una dichiarazione di principio su questo. Tornare da Glasgow con un orizzonte per il phase out di questa fonte fossile è quasi impossibile». Questa è una prima lezione per seguire Glasgow: il gap non è un interruttore acceso / spento, ma qualcosa che si riduce pezzo dopo pezzo.
I fridays international
Se avete seguito la PreCop di Milano, forse ricordate lo straziante discorso dell'attivista ugandese Vanessa Nakate davanti a Cingolani e Sala: un vivido racconto sul fatto che la crisi è già qui, spesso lontana dai nostri radar o dalla nostra sensibilità, che sia la carestia climatica in Madagascar o la siccità in Afghanistan. Uno dei grandi temi di tutte le Cop è questa faglia che separa la responsabilità di chi emette di più dalla vulnerabilità degli altri.
Non a caso - da contraltare al G20 - è nata la coalizione V20, vulnerable twenty. Serve solidarietà, come diceva Bergamaschi, e questa solidarietà è soprattutto finanziaria. Entro il 2020 avremmo dovuto raggiungere la quota di 100 miliardi di dollari all'anno di finanza per il clima, flusso stabile per aiutare i paesi più in difficoltà a far fronte all'emergenza. Siamo a poco più di due terzi della quota, e l'Italia è ancora più indietro. Arrivare a completare questa colletta è una questione di credibilità: il clima richiede azione coordinata e globale, ognuno deve fare la propria parte, a casa e sullo scenario internazionale.
Quando si manca così deliberatamente un obiettivo, è tutto il sistema a risentirne, mentre si rafforza quella spinta all’«ognuno per sé» che è una garanzia di catastrofe. Rispetto a Parigi, lo scenario è diventato più complesso: i 100 miliardi servono a mitigare e adattarsi, azioni rivolte al futuro, ma cosa fare quando un evento climatico ha già fatto danni economici e umani? È il tema codificato nella formula «loss and damage», i vulnerabili chiedono risarcimenti per uragani, ondate di calore, allagamenti causati dalla crisi e li vogliono da chi li ha causati.
È un tema che finora è stato sempre in un angolo cieco delle Cop, ma i paesi più sviluppati non potranno sfuggirgli a lungo: difficile che Glasgow porti delle risposte certe, ma c'è da aspettarsi che almeno lo renda una parte permanente dei negoziati. È il cuore della giustizia climatica, concetto centrale dell'ambientalismo contemporaneo.
I meeting di Glasgow
«In ogni vertice ci sono due agende», spiega Mariagrazia Midulla del Wwf, che di Cop ne ha viste tante, «C’è l'agenda negoziale e poi c'è il fronte dei segnali, che danno l'avvio a processi politici e che magari non portano risultati immediati, ma contano per arrivare al cuore del problema».
È quello che si spera sul carbone o sul loss and damage: avviare processi nuovi. Sul fronte più strettamente operativo, invece, c’è anche da completare le parti incompiute dell'accordo di Parigi: per esempio le regole di trasparenza nella certificazione delle emissioni o quelle per i mercati di carbonio, che regolano il costo che determinati settori pagano per continuare a emettere.
Sono due bulloni importanti da stringere, il primo riguarda la possibilità di avere dati certi e unificati in un settore nel quale tutto è probabilistico e si misura con modelli complessi. Il secondo è per uniformare l'azione a livello globale, per evitare dumping e greenwashing, tema caro all'Unione Europea e che sta al cuore del Fit for 55, il piano Ue per il medio termine, il 2030. E poi ci sono le soluzioni basate sulla natura, «gli alberi», per tornare alla formula di Johnson. Uno degli obiettivi della Cop è mettere la lotta dalla deforestazione al centro dell’agenda climatica. Se non riusciremo a impedire alle foreste di degradarsi così tanto da emettere carbonio invece di assorbirlo - come succede in Amazzonia - non c’è zero netto che si possa raggiungere.
A Glasgow ci saranno tavoli tra i grandi paesi forestali e gli importatori di materie prime, il Brasile presenterà la sua promessa - già annunciata - di deforestazione zero al 2030, ma con quale credibilità? È il fronte sul quale i confini tra stati e il sovranismo ecologico si fanno sentire di più, ed è quindi anche difficile mettere un’asticella.
Come ci arrivano i vari paesi?
La Cop26 comincia in un momento pessimo: Cina e India sono alle prese con i già citati problemi energetici, così come l'Europa e la sua crisi del gas. Nella maggior parte dei paesi decisivi sta iniziando l'inverno, anche le priorità purtroppo sono stagionali, nell'agosto delle cupole di calore le conversazioni e la sensibilità pubblica sarebbero state diverse.
Gli Stati Uniti di Biden hanno l'enorme problema del piano per il clima, bloccato da un senatore che risponde agli interessi del West Virginia: come si può convincere Cina e India a mollare il carbone, se il rappresentante di uno stato da meno di due milioni di persone blocca il Congresso? L’obiettivo diplomatico rimane riuscire a isolare il clima da ogni altra tensione internazionale. I paesi che organizzano sono Regno Unito e Italia. Il primo ha un'ondata di pandemia in corso e un evento con una logistica complessa, da mesi sul punto di andare in crisi ed essere annullato, con 25mila persone arrivo, quarantene, non vaccinati da tutto il mondo e manifestazioni in strada da gestire con saggezza.
Johnson vorrebbe fare della Cop26 la prima grande vittoria diplomatica post-Brexit, ma è inciampato sul piano di aprire una miniera di carbone in Cumbria. L'Italia ha ospitato Youth4Climate e PreCop, il giudizio globale è che gli eventi siano andati bene, hanno lanciato il ministro Cingolani sulla scena internazionale, posizione che gli sembra piuttosto cara, visto che non avremo alla fine un inviato per il clima, come promesso d'estate. La verità è che il nostro inviato per il clima è Mario Draghi, leader europeo più solido e credibile al momento. Se mai c'è stato un momento giusto per il Whatever it takes del clima, è sicuramente questo.
Il covid-19
E poi c’è la pandemia, che è una specie di tema ombra che aleggia su ogni altro tema, modello di azione globale, ma anche ordigno che rischia di far deragliare tutto. Il vertice ha un protocollo più rigido di quello in vigore nel liberale Regno Unito, il Covid ha fatto slittare l'evento già di un anno, ancora a settembre si chiedeva di posporlo o trasferirlo online.
Il tempo per la prima soluzione non c’è (non si comincia l’azione per il decennio decisivo nel 2022), l’opzione digitale avrebbe tolto il vero significato delle Cop: l'incontro. I risultati da raggiungere sono difficili, richiedono una cosa che nei rapporti tra stati non è moneta corrente: l’altruismo. Diversi siti specializzati hanno sottolineato come già il distanziamento e il protocollo Covid possano rendere difficili i negoziati, che sono una questione di numeri e strategie ma, nell'ultimo miglio, anche di empatia personale.
Le Cop sono forse l'unica occasione in cui si può vedere e ascoltare in prima persona cosa significhi essere un cittadino delle Maldive o delle Isole Marshall. Senza questo dialogo personale non avremmo avuto l’accordo di Parigi. Nella valigia di ogni delegato ci saranno due libri di testo: il primo è il rapporto Ipcc uscito ad agosto, il secondo è il World Energy Outlook dell'Agenzia internazionale dell'energia di qualche settimana fa.
Entrambi avevano un fondamentale concetto: si può fare, si può tenere il mondo a un riscaldamento sostenibile. È una via stretta, difficile e c'è poco tempo, ma si può ancora fare. Il 12 novembre sapremo se siamo più vicini o no a riuscirci. Intorno ai negoziati ci sarà la turbolenta e decisiva vigilanza della società civile, il vero ingrediente segreto della Cop: l'attenzione e la pressione degli attori non statali, dalle Ong e ai media, saranno decisive.
© Riproduzione riservata