- Alla Cop26 è stato il giorno di Obama: l’ex presidente è arrivato in soccorso del vertice sul clima nel suo giorno più delicato. All’inizio della seconda e ultima settimana, i negoziati sono in stallo su tutti i punti chiave. Obama ha dato una scossa emotiva al summit (e oscurato Kerry).
- Nella bozza finale di accordo (di cui mettiamo a disposizione il testo integrale) manca un riferimento alle fonti fossili: Greenpeace ha accusato l’Arabia Saudita di ostruzionismo.
- Altri nodi difficili da risolvere sono quelli sulla trasparenza nel riportare le emissioni e sui mercati di carbonio: questioni tecniche, che però rischiano di mandare a monte il vertice.
«Il nostro pianeta è stato ferito. Non possiamo guarire queste ferite oggi, non le potremo guarire nemmeno domani, ma le guariremo. E ora mettiamoci al lavoro». Dopo il finale del discorso di Barack Obama è arrivata un'ovazione dall'assemblea plenaria. L'ex presidente è arrivato in soccorso della Cop26 di Glasgow proprio nel suo momento più delicato, nel giorno in cui l'architettura del negoziato ha iniziato a scricchiolare, colpita nella sua credibilità e coesione su almeno tre fronti diversi.
Il primo è la richiesta dei paesi vulnerabili di cospicui risarcimenti per la crisi climatica: è il capitolo chiamato «loss and damage», i danni presenti e ormai impossibili da evitare di uragani, siccità, alluvioni. Il fronte dei paesi in via di sviluppo lo ha quantificato in una cifra che va da 290 a 580 miliardi di dollari all'anno, un conto dal valore finanziario e simbolico enorme, presentato ai paesi con più emissioni storiche, quindi con un destinatario in particolare: gli Stati Uniti.
«Ricevere questi aiuti è un nostro diritto, non stiamo chiedendo beneficenza, ma responsabilità da parte dei paesi che hanno causato l'emergenza», ha dichiarato a nome degli stati insulari la vice ministra dell'ambiente della Repubblica Dominicana Milagros De Camps.
È una delle cose che possono rompere la Cop26, i paesi in via di sviluppo chiedono almeno che sia riconosciuto in via teorica il loro diritto a questa riparazione climatica. È un punto sul quale l'ostruzionismo è tutto americano e rischia di minare la fiducia in tutta la leadership di Biden e Kerry.
Il fronte ostile
Il secondo punto di rottura è la resistenza di alcuni paesi G20, che si sono attivamente messi di traverso rispetto al successo del negoziato. Greenpeace ha citato l'Arabia Saudita, che per ora è riuscita a tenere le fonti fossili di energia fuori dalla bozza finale dell'accordo.
Anche Brasile e Australia stanno manomettendo il dialogo su punti chiave come i mercati di carbonio e la trasparenza nel riportare le emissioni, punti tecnici che però rischiano di mandare a monte il vertice.
Il terzo guaio della Cop26 è la delegazione in rappresentanza dell'industria del fossile: sono bastati i conteggi fatti dalla Bbc su un foglio Excel per scoprire che le aziende di petrolio, gas e carbone rappresentano la delegazione più corposa, più di qualsiasi paese, compresi gli Usa: 503 lobbisti in giro per lo Scottish Event Center. Per fare un paragone l'Italia, co-organizzatrice della Cop, ne ha 66 (e nemmeno un padiglione).
Anche gli annunci della prima settimana si stanno sfaldando po' alla volta. Lo stop alla deforestazione aveva un valore enorme anche per la presenza dell'Indonesia, che però ha definito l'accordo (non vincolante) firmato firmato pochi giorni prima come «ingiusto e inappropriato», rivendicando il suo diritto allo sviluppo attraverso le foreste. Di fatto lo ha stracciato.
La Corea del Sud era uno dei paesi che avevano annunciato l'uscita dal carbone come fonte di energia, nel giorno di pausa della Cop26 ha precisato che non c'è una tempistica, che quelle erano solo intenzioni, non impegni.
La spinta di Obama
In questo scenario di pessimismo, Obama è arrivato armato di retorica («sono un privato cittadino, ho scoperto di nuovo il problema del traffico») e star power. Nessuno dei politici del World Leader Summit ha suscitato il livello di aspettativa generato dall'ex presidente. Gli attivisti di Fridays for Future lo hanno accolto con i cartelli «Show us the money», «facci vedere i soldi», hanno scelto lui per recapitare un messaggio all'America (Kerry non ne sarà felicissimo).
Sui social Vanessa Nakate ha rilanciato il video del 2009 in cui faceva la promessa di 100 miliardi all'anno per contrastare la crisi climatica: arriveranno (forse) nel 2023. E sempre più spesso delegati di ogni paese citano la difficoltà degli americani a far passare il piano clima al Congresso: un negoziatore africano ha descritto la situazione così: «I cinesi promettono poco ma fanno quello quello che promettono, gli americani promettono tanto ma non sappiamo mai cosa faranno davvero».
Obama ha risposto con uno dei suoi discorsi migliori, e il migliore sentito a Cop26. Ha elogiato Greta Thunberg, ma con riserva, ha citato Shakespeare (Otello, sulla virtù della pazienza) e sua madre: «Quando ero arrabbiato, mi diceva: Barack, lascia stare la rabbia e rimboccati le maniche, cambia quello che non ti piace».
Non ha detto una parola sui temi chiave, ma ha sostenuto Kerry (al quale non sembra avere voglia di succedere nell'ingrato compito) e Biden: «Build Back Better farà la storia, ma so che Joe avrebbe voluto fare un piano più ambizioso». Ha parlato della fatica della democrazia, lanciando un messaggio contro le autocrazie. Ha poi invitato a convincere i riottosi e gli indifferenti: «Non dobbiamo parlare solo a quelli che hanno la Tesla, dobbiamo ascoltare le paure di chi teme che pagherà più degli altri per questa transizione».
Il suo intenso discorso non ha risolto i problemi di credibilità accumulati dagli Usa in questi giorni, ma ha dato la botta emotiva della quale Cop26 aveva bisogno. Obama non può più metterci la politica o i soldi, così ci ha messo l'elettricità. Servirà molto altro però, il summit sul clima è vicino al precipizio.
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