In alcuni territori l’acqua è una risorsa scarsa, ma dalle sorgenti “private” si continua a estrarre. Le concessioni sono affidate a canoni bassissimi dalle Regioni: un tema che la politica ignora
La crisi idrica sta risalendo la penisola e non passa giorno senza che arrivino notizie di invasi ai minimi storici e razionamenti a Palermo, Potenza, in tanti comuni sardi. A conferma di un’accelerazione dei problemi si trovano studi e analisi internazionali, che arrivano a definire l’acqua il nuovo petrolio e oro blu. Se questa è davvero la situazione e, soprattutto, il futuro che ci aspetta, allora forse non va relegata alle pagine dell’economia una notizia di alcuni giorni fa.
Riguarda la decisione del gruppo Nestlè di riunire tutti i marchi del gruppo in una società a sé. E quindi, assieme al noto marchio francese Perrier si ritroveranno Acqua Panna, San Pellegrino e Levissima. A prima vista tutto bene. Imprese straniere sono garanzia di investimenti e della possibilità di portare i marchi italiani sui tavoli dei migliori ristoranti di Dubai e New York. Non solo, il settore cresce, con un giro di affari che ha visto un più 8 per cento nel 2023, sempre maggiori esportazioni e oltre 3,1 miliardi di euro di fatturato.
Alla frontiera della siccità
Ma siamo sicuri che sia davvero così e non c’entri niente con la questione dell’accesso all’acqua in Italia? Un esempio vale mille parole, in provincia di Palermo da mesi l’acqua arriva a rotazione nelle case, con sospensioni che si alternano per distretti. Eppure, c’è una sorgente lì vicino da cui si estrae una buonissima acqua che anche in questi giorni viene imbottigliata e distribuita in bar, supermercati, ristoranti.
Stessa cosa ad Agrigento, dove la situazione è ancora più difficile, se possibile, perché ci sono anche casi di inquinamento. Ma anche qui, nessun problema per chi imbottiglia Acqua Vera. D’altronde oggi la Sicilia è la prima frontiera della siccità in Italia e sarà il banco di prova delle sfide che risaliranno presto purtroppo l’Appennino.
Già oggi in tante aree di montagna le sorgenti più in alto stanno andando in crisi perché la falda si è abbassata per le mutazioni nell’andamento di neve e piogge. Ma domani che succederà? Davvero, come in Sicilia, qualcuno può pensare che la soluzione siano i desalinizzatori e che nulla debba cambiare nel modo con cui si gestisce il sistema delle concessioni per lo sfruttamento di 16,5 miliardi di litri di acqua di sorgente all’anno in Italia.
Il valore
La prima chiave per guardare al futuro dell’acqua è il valore di un bene particolare. Che è pubblico, per legge, ma la cui gestione è affidata tramite concessioni. E con infinite differenze di prezzo nel nostro paese, da costi bassissimi in agricoltura a oltre quattro euro a litro negli aeroporti o nei ristoranti di lusso. Possiamo continuare a non farci attenzione, ma non quando si arriva a un punto di crisi per cui l’acqua scarseggia e per lavarsi nelle case e dare da bere a pecore e mucche si è costretti a chiamare una carissima autobotte che chissà da dove la prende. E per ricordarci che c’è chi non se lo può permettere.
Stiamo diventando un paese per cui quello in alcuni territori è considerato un servizio essenziale, a cui non si fa neanche caso, da altre parti è diventato un lusso. Possibile che non si veda il cortocircuito? La risposta già la conosciamo: i problemi sono altri, prima bisogna affrontare le vergognose perdite degli acquedotti, l’assenza di bacini per trattenere le acque meteoriche.
Tutto vero, ma non si può continuare in questo paradosso per cui diamo quasi gratis un bene diventato scarso. Togliamo almeno di mezzo l’ipocrisia sui capitali stranieri che sono i benvenuti perché portano investimenti in settori strategici. Non scherziamo, perché innovazione e lavoro, ricerca e sviluppo stanno da altre parti.
Certamente ci sono stati miglioramenti nella velocità di sfruttamento delle sorgenti, nella riciclabilità delle bottiglie, nell’approvvigionamento da fonti rinnovabili. Ma come si fa a non vedere che l’interesse per le acque minerali italiane più che nella bontà sta soprattutto nei margini di guadagno a fronte di canoni irrisori.
La politica
La seconda chiave è invece politica. Viene da chiedersi fino a quando tutto l’arco parlamentare potrà far finta di non accorgersi di questa situazione. Per ora nessuno ne vuole parlare ed è passato praticamente sotto silenzio un rapporto del ministero dell’Economia, datato 2018, che racconta in modo efficace la realtà italiana mettendo in particolare evidenza alcune questioni.
La prima è la conferma che le concessioni hanno dei prezzi bassissimi, per ogni euro pagato allo stato se ne guadagnano circa 200, ma con punto di oltre 300, ad esempio per l’acqua Lete. La seconda è che negli ultimi anni l’appetito delle imprese è cresciuto, con metà delle concessioni assegnato dopo il 2000. Infine, che è un business sicuro, visto che una sola concessione è stata assegnata tramite gara.
Per tutte le altre affidamento diretto o proroga, addirittura alcune risalgono a più di cento anni fa. A proposito di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, qui ci troviamo in un campo esemplare del fallimento del trasferimento di poteri regionali con l’aggravante dell’assenza di controlli da parte dello stato. Perché i canoni stabiliti dalle regioni sono bassissimi, non si fanno gare ma nessuno nei ministeri controlla.
Eppure sono tante le chiavi con cui prendere per le corna la questione. La destra al governo potrebbe affrontarla in salsa sovranista e dire stop alle multinazionali straniere che sfruttano le sorgenti italiche. Denunciando i guadagni portati via dal paese e arrivare a tirare fuori anche il Golden Power, a difesa di una risorsa strategica nazionale.
I liberali italiani, non moltissimi, potrebbero invece chiedere che finalmente si punti sulla trasparenza, sul premio al merito e a chi con maggiore efficienza e vantaggi per le casse pubbliche è in grado di gestire le concessioni. In poche parole, affidare le concessioni tramite gare ad evidenza pubblica.
E la sinistra? Qui davvero c’è un’autostrada davanti. Perché come si può giustificare che in una stessa regione, nello stesso csiccità oramai riguarda tutti e ogni territorio.
omune ci sia chi non ha accesso all’acqua potabile e chi guadagna milioni di euro sfruttando acque pubbliche? E, soprattutto, come lo si possa giustificare e non intervenire in un paese dove la© Riproduzione riservata