Non siamo davanti alla solita vicenda estiva. La Sicilia è la frontiera della crisi climatica in Italia. Il governo preferisce ripetere il solito spartito. Ma serve un cambiamento della gestione idrica
La crisi idrica in Sicilia non è la solita vicenda estiva, questa volta non andrà a scomparire con l’autunno, le prime piogge, per essere sostituita da qualche nuovo tema all’ordine del giorno.
La situazione in tanti comuni dell’isola è senza precedenti, come la sensazione di abbandono di agricoltori, cittadini, turisti. E stupisce perché in teoria saremmo pronti ad affrontarla.
Grazie a un commissario straordinario «per gli interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica», a un piano nazionale di adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici approvato a gennaio, e a un elenco di 418 interventi nel settore idrico per 12miliardi di euro di spesa presentato a maggio da Matteo Salvini e che vedrà un primo finanziamento da 900 milioni.
Ma è nei momenti di crisi che purtroppo si scopre la distanza tra la realtà e le promesse, che si comprende che quanto messo in piedi funziona nella comunicazione ma è un castello di carte che non affronta i nodi, tutti da sciogliere, della gestione delle risorse idriche. E la Sicilia è per tante ragioni un caso scuola da cui imparare, perché è la regione di frontiera del rapido e drammatico cambiamento climatico già in corso nel Mediterraneo, con una situazione identica a quella che in questi mesi si sta vedendo in Marocco e Tunisia.
Se saremo in grado di affrontarlo qui forse lo saremo anche in Sardegna, Calabria, Puglia e poi a risalire la penisola in un processo irreversibile di aumento delle temperature e modifica della dimensione e dinamiche delle piogge, ma che si può affrontare, adattando i territori attraverso profondi cambiamenti nella gestione idrica.
Gestione opaca
Ma perché nel 2024 in Sicilia l’acqua arriva ancora solo in poche ore della giornata in così tanti comuni, come è possibile che la rete perda oltre il 50 per cento dell’acqua trasportata, perché le imprese che imbottigliano l’acqua minerale delle sorgenti beneficiano di canoni bassissimi mentre i cittadini si svenano per pagare a carissimo prezzo quella portata dalle autobotti?
Qui il climate change non c’entra nulla, qui davvero si deve tornare a Leonardo Sciascia e a come il controllo del territorio passi ancora per una intermediazione opaca e discrezionale in cui entrano anche i poteri mafiosi, allo statuto speciale dell’isola e ai disastri gestionali.
Ma se questa situazione è da tempo vergognosa, ora è davvero da irresponsabili non metterci mano, perché le conseguenze sono quelle che racconta la cronaca, con il bestiame che muore di sete, i terreni agricoli desertificati, i turisti che scappano.
Eppure, lo spartito è lo stesso ascoltato da decenni con annunci di grandi interventi, promesse di nuovi desalinizzatori, ma si eludono le ragioni alla base di questa situazione. Ad esempio, per la gestione del servizio idrico integrato in Sicilia non valgono le regole del resto del paese. E non è Arera l’autorità di riferimento per stabilire canoni e concessioni, ma la regione. Con ricorsi e inefficienze incredibili.
Ma o si riconosce che questa situazione non è più accettabile oppure siamo di fronte al solito teatrino per intercettare risorse e gestire i cantieri. In Sicilia deve valere lo stesse sistema di regole, controlli e responsabilità del resto d’Italia. Tra l’altro, non c’è nessun esempio migliore del disastro a cui ci può portare l’autonomia differenziata con ogni territorio che fa da sé senza obiettivi e regole condivise.
Il piano nazionale di adattamento
Il governo ha assicurato che i 418 interventi individuati permetteranno di risolvere i problemi della gestione dell’acqua in Italia. Ma perché questa volta dovrebbe essere diverso? Quali garanzie ci sono che non sia il solito elenco presentato dal ministro di turno e che gli interventi verranno davvero portati avanti, controllati nella esecuzione, che si eserciteranno i poteri sostitutivi in caso di ritardi?
È dallo scioglimento della struttura di missione Italia sicura che si gira intorno al problema, perché all’epoca il governo Renzi voleva accentrare la responsabilità per garantire efficacia, mentre Salvini vuole fare proprio il contrario.
Quell’elenco di interventi viene dalle regioni e figuriamoci se in una fase come questa si vuole aprire conflitti con coloro a cui si vuole affidare larga parte delle competenze su questi temi. E poi, come sono state scelte le opere? E qui torniamo al piano nazionale di adattamento, di cui non si hanno più notizie e che aveva fissato le priorità per affrontare nei diversi territori un clima sempre più caldo e con problemi di siccità e gestione idrica che non sono uguali in tutto il paese.
L’Europa ci aveva chiesto di definire quello strumento proprio per leggere la complessità dei problemi dei multipli e diversi usi dell’acqua tra agricoltura, industrie, edifici nei diversi territori e ad affrontarli in modo nuovo, con chiare priorità per affrontare i lunghi periodi di siccità e poi improvvisamente le piogge violente.
Da quel piano veniva fuori che non solo serve potenziare e realizzare alcuni grandi infrastrutture ma che sono necessari anche diffusi e articolati interventi per trattenere e riutilizzare l’acqua meteorica e quella pulita che esce dai depuratori, per farla rientrare nel ciclo degli usi urbani e industriali, filtrarla nei terreni urbani e agricoli, invece che essere espulsa velocemente.
Ad esempio, quell’acqua depurata all’interno di attività produttive o che proviene da depuratori, deve poter essere utilizzata per tutti gli usi compatibili al posto della preziosa acqua potabile che proviene da sorgenti e pozzi.
Oggi però non succede e ci sono interpretazioni diverse tra regioni e con il ministero su come dovrebbe avvenire, per cui c’è qualche buona pratica ma si continuano a sprecare risorse.
Serve una strategia
Un altro tema normativo che si dovrebbe affrontare urgentemente riguarda le infrastrutture che servono per portare quell’acqua depurata dove è la domanda industriale, agricola e urbana, magari per lavare le strade e innaffiare i parchi urbani.
Perché chi le paga? Anche qui qualcosa si muove rispetto alla possibilità di far entrare alcuni interventi tra quelli finanziati nell’ambito del servizio idrico integrato, ma senza un chiaro intervento del ministero non avremo alcuna svolta. Per riuscirci serve passare dalla logica degli elenchi a una strategia che presenti e affronti i problemi, per risolverli uno alla volta.
Chi invece è sicuramente escluso da tutti questi ragionamenti sono i comuni. Eppure è nelle città che le violente piogge creano i maggiori impatti economici e le ondate di calore determinano impatti sanitari drammatici, ed è qui che si potrebbero oggi sviluppare profonde innovazioni nella gestione delle acque meteoriche e grigie, nella separazione delle reti.
Se un sindaco oggi volesse rimettere mano ai quartieri dove ci sono più morti tra gli anziani nei mesi estivi, ripensare una piazza o un’area produttiva che si allaga e recuperare quell’acqua per innaffiare gli alberi, non avrebbe risorse o programmi a cui guardare. Siamo sicuri che sia questo il modo di affrontare la crisi idrica?
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