Sull’elettrico cinese la Commissione europea si accoda agli Stati Uniti (ma con meno risorse). Il nostro sistema industriale invece dovrebbe alzare l’asticella sul clima e sulla qualità dei prodotti
Se davvero si pensa di difendere il sistema industriale europeo dalla concorrenza delle tecnologie cinesi accodandosi agli Stati Uniti, con l’aumento dei dazi, il futuro è quanto mai a tinte fosche.
È di questi giorni l’aumento fino al 48 per cento delle tariffe sulle importazioni di auto elettriche, che fa seguito a quello degli Usa che li ha portati al 100 per cento estendendoli a tutti i prodotti considerati “strategici”. Mentre è ormai ricchissima la letteratura di settore su quanto le risorse messe a disposizione da Joe Biden con l’Inflation Reduction Act, per attrarre investimenti industriali e supportare le imprese, superino largamente per dimensione e efficacia quanto messo in campo dall’Europa.
Eppure, la progressiva deindustrializzazione è una prospettiva che dovrebbe spaventare a morte, perché colpirebbe al cuore il modello europeo di welfare e di sviluppo attento alla dimensione di coesione territoriale.
D’altronde è in questa dimensione di incertezza, con tante ferite aperte nelle regioni dove hanno chiuso fabbriche e centrali, di paura del futuro che hanno fatto breccia i partiti della destra. Trovando gioco facile nell’incolpare il green deal e nel vendere slogan facili ad effetto sicuro: dobbiamo difenderci dall’immigrazione che ci ruba il lavoro alzando muri e dai prodotti che vengono dall’estero aumentando dazi e fermando le tecnologie verdi.
Ora che è finita la campagna elettorale non ci sono davvero più scuse per rinviare una riflessione su come costruire una risposta diversa e credibile. Che faccia capire che il destino dell’Europa dentro questa partita, e del nostro paese con il suo sistema di imprese e interessi, è ancora tutto da scrivere.
I dazi non sono vincenti
La narrazione degli ultimi mesi sui disastri del green deal e la prossima marcia indietro planetaria è un film che non corrisponde in alcun modo alla realtà. Due esempi aiutano a capire meglio questo spettacolo surreale.
Il primo riguarda il Texas, lo stato del petrolio per eccellenza, il fortino della destra americana. Bene, oggi è non solo il territorio dove si è avuto il maggior sviluppo dell’eolico negli Stati Uniti, ma anche quello con i più grandi impianti fotovoltaici promossi da utility, superando persino la California. Per la semplice ragione che sono convenienti.
La seconda riguarda la tanto vituperata Cina, accusata di fare concorrenza sleale con sovvenzioni alle proprie imprese. Quello che non si riesce a comprendere è che la Cina sta portando avanti un Piano preciso, sancito nel XIV Piano Quinquennale, per ridurre i consumi di fonti fossili non solo nella produzione di elettricità, ma anche nelle filiere produttive.
I sussidi andranno avanti finché il modello industriale non starà in piedi da solo per il proprio mercato interno, come avviene oggi per il solare, e per esportare in tutto il mondo generando in questo modo un cambiamento irreversibile. Nel quale le loro imprese potranno dominare, ma non perché sono cattive, semplicemente perché hanno preparato il terreno per poterlo fare.
Se l’Europa non vuole limitarsi ad alzare muri sempre più alti, mentre il resto del mondo beneficia di prodotti a più basso costo, deve decidere di costruire una vera politica industriale che vada oltre la dimensione dei singoli paesi, con ingenti risorse per realizzare un salto di scala nella ricerca e produzione. E poi deve alzare l’asticella della qualità e dell’innovazione come stella polare per difendere il proprio sistema industriale.
Perché piuttosto che aumentare i dazi, si potrebbe spingere fino in fondo un’importante innovazione fiscale introdotta nell’ultima legislatura, quella del Carbon Border Adjustment Mechanism. Ossia la tassa sul contenuto di carbonio delle merci importate. Perché non utilizzare questo meccanismo – la cui applicazione sarà purtroppo molto graduale e limitata – in modo pragmatico e utilitaristico per cambiare le regole del gioco nel grande mercato europeo?
Se i prodotti cinesi, americani o turchi vogliono entrare devono garantire la stessa sostenibilità dell’acciaio e delle auto prodotte nel vecchio continente, che pagano di più l’energia elettrica ma con minori emissioni certificate. Il Made in Europe potrà tornare ad essere competitivo se costruisce filiere dove di ogni tassello si conoscono le emissioni, valorizzando la propria capacità di gestire in modo efficiente i processi, di recuperare e riciclare le materie prime. Così si alza l’asticella in modo trasparente per tutti i giocatori e si difende sul serio l’unicità del modello europeo.
La strada dell’Italia
Se è vero che la competizione su sfide industriali di questa portata si può giocare solo a livello europeo, questo non vuol dire che i paesi debbano stare a guardare. Al contrario, perché la rivoluzione tecnologica a cui stiamo assistendo è molto diversa da quella dei due secoli scorsi, quando era fatta di straordinari processi di innovazione che procedevano in parallelo per le automobili, i treni, la produzione di energia elettrica, il riscaldamento degli edifici, e poi le diverse reti a inseguire e accompagnare i processi.
L’errore più grande che si continua a fare nel guardare allo scenario che abbiamo di fronte per fermare i cambiamenti climatici come ad una sommatoria di tanti pannelli solari, pompe di calore, auto elettriche, monopattini, ecc.
Questa è la visione che troviamo nel Pniec, il Piano Energia e Clima del governo Meloni, con numeri obiettivo per ognuna di queste tecnologie a cui il ministro Gilberto Pichetto Fratin vorrebbe aggiungere il nucleare.
Ma il futuro in cui già ci troviamo a camminare è molto diverso e più ricco di opportunità di quanto si pensi. Perché nella decarbonizzazione degli edifici sarà la capacità di gestire attraverso sistemi energetici e digitali, sempre più intelligenti e sofisticati, a fare la differenza, molto più del ruolo delle singole tecnologie. E la stessa cosa sta avvenendo nelle città, come vediamo sugli smartphone che ci mettono a disposizione le diverse combinazioni di spostamenti veloci attraverso l’utilizzo più efficace e integrato del trasporto pubblico su ferro e su gomma, di una sharing mobility sempre più articolata, di percorsi pedonali e ciclabili sicuri, di nodi di interscambio con una mobilità privata sempre più elettrica e interconnessa.
La buona notizia, che troviamo confermata oramai in tanti studi, è che nella gestione intelligente di questi nuovi modelli sono molto maggiori i benefici economici e occupazionali piuttosto che nella produzione a prezzi sempre più bassi dei differenti pezzi. C’è più lavoro, meglio formato e non delocalizzabile.
Ovviamente, sarebbe meglio avere anche le fabbriche che realizzano quegli apparecchi, ma qui si torna indietro al come sono stati prodotti. Sta dunque nelle nostre mani la scelta di accelerare proprio questi processi, con politiche nazionali e locali che diano certezze agli investimenti. Altro che continuare a parlare di dazi, sussidi per Stellantis e Ponte sullo Stretto di Messina.
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