In Italia è pieno di gente che va a dormire arrabbiata e si spacca la testa per cambiare le cose; in questo contesto avere sensibilità politica è diventato un dolore». È una frase che mi torna spesso in mente, me l’hanno detta Gabriella Sesti Ossèo e Cristiana Cerri Gambarelli, le cofondatrici di Fantapolitica!, il progetto che hanno costruito per aggirare la lentezza dei partiti e assolvere alla funzione alla quale questi hanno scelto di abdicare: sostenere dal basso persone giovani e appassionate, con idee radicali di giustizia sociale e ambientale, farle arrivare all’interno delle istituzioni attraverso la selezione, il sostegno pubblico e la formazione.

Il dolore di cui parlano Sesti Ossèo e Gambarelli nasce dalla difficoltà di far incontrare nel campo della sinistra la domanda di politica che c’è in Italia con l’offerta, sempre più limitata e scadente. Le elezioni di settembre lo hanno certificato con ogni chiarezza possibile: non solo con la squillante vittoria della destra, ma anche con il dato che, nonostante cinque anni di intensa politica giovanile in ogni ambito della società civile (clima, diritti, antirazzismo), gli eletti con meno di trent’anni nel campo del centrosinistra sono stati appena tre e l’età media degli eletti è ampiamente sopra i cinquant’anni.

C’è una frizione fortissima tra i due fronti, partiti e attivismo. In Italia si sta consolidando da anni un patrimonio di passione, di competenza, di desiderio politico che i partiti – primo tra tutti il Partito democratico – fino a oggi hanno saputo solo ignorare e poi sprecare.

Riparare la frattura

Questa frizione è una frustrazione che accomuna tutte le democrazie, oggi sempre più a corto di risposte nei confronti dei cambiamenti della società e delle sfide del contesto. L’attacco con la zuppa di pomodoro contro I Girasoli di van Gogh alla National Gallery di Londra contiene molte storie diverse, ci mostra le evoluzioni del linguaggio e delle pratiche di protesta, ma è innanzitutto espressione di quel «dolore politico», di quel trovarsi attivi e consapevoli ma senza alternative spendibili, con tutti i canali che può offrire una democrazia bloccata, per muri di classe sociale, di genere e di età.

Cosa stiamo osservando quando gli attivisti di Ultima generazione bloccano da mesi il Grande raccordo anulare a Roma? Quella è una storia di vulnerabilità e disperazione: sono le stesse persone che hanno fatto lunghi scioperi della fame anche solo per avere una conversazione con un ministro o con un leader di partito su una crisi che è la più grande sfida della contemporaneità e che li terrorizza. Non sanno più come farsi ascoltare e quindi non sanno nemmeno per chi votare.

L’attivismo

Primavera ambientale (Il Margine, uscito in libreria il 14 ottobre) è un saggio che ho scritto proprio per provare a capire come si può riparare questa frattura. L’attivismo per il clima è stato una delle più importanti notizie politiche del decennio scorso, da quattro anni ha riscritto le priorità della nostra società, ma non ha affatto esaurito la sua missione storica, né può finire nella tomba che accoglie i movimenti alla fine dei loro cicli, dal 1968 all’onda che si infranse per le vie di Genova nel 2001.

Non possiamo permetterci che il tema di cui sono portatori e custodi venga rimosso, perché il clima non si dimenticherà di noi, e la tragica sequenza di eventi che ha colpito l’Italia nel 2022, dal collasso della Marmolada all’alluvione nelle Marche, è qui a ricordarcelo.

Dopo aver cambiato la lettura che il mondo ha di sé stesso, il movimento che include Fridays for Future, Extinction Rebellion, Just Stop Oil e tutte le altre sigle si trova in un momento di passaggio e transizione del quale le azioni eclatanti come quelle della National Gallery o del Raccordo anulare sono un sintomo. Hanno bisogno di sbocchi concreti, riuscire a offrine è per la politica contemporaneamente un dovere e un’opportunità.

Due processi politici

Ho chiuso le bozze di Primavera ambientale una settimana prima che cadesse il governo Draghi. La strana campagna elettorale estiva e le impreviste elezioni d’autunno hanno soltanto accelerato due processi che erano già perfettamente visibili prima della crisi di governo. Il primo è la crisi esistenziale del Partito democratico e della sinistra italiana e la sua difficoltà a comprendere la crisi climatica e a coglierne il senso di possibilità politica, la sua natura di chiave per ripensare tutto il proprio mandato e la propria funzione.

Il secondo è la voglia di tutti questi soggetti ambientalisti fuori dal campo dei partiti, che identifichiamo nel campo dei movimenti per il clima, di confrontarsi in modo più diretto con la politica tradizionale, con i meccanismi dei partiti e anche con le fatiche delle campagne elettorali e della ricerca di un consenso più ampio di quello che possono trovare dentro la propria bolla.

Il contesto della guerra, della crisi energetica e della strenua resistenza dello status quo impedisce loro di rimanere in quella cornice che si erano dati, la trafila di cortei e divulgazione digitale, la piazza colorata e i social network. Le nuove condizioni impongono di uscire da lì e di inventarsi un nuovo ciclo.

Un modo è incollarsi alla Primavera di Botticelli agli Uffizi, o altre azioni che servano a scuotere l’illusione che l’azione sia procrastinabile e subordinabile ad altre priorità. L’altro, che non esclude affatto il primo, è iniziare a sporcarsi le mani e mettere nel proprio orizzonte il cammino verso la prossima legislatura.

Emozioni in politica

Per i partiti progressisti aprirsi al campo dell’attivismo significherebbe innanzitutto imparare una cosa o due sulla gestione delle emozioni in politica. La rabbia e gli altri complessi pezzi dell’esperienza umana (la paura, l’ansia, il disgusto) sono stati tradotti in politica quasi esclusivamente a fini distruttivi dalle destre populiste, che si sono mostrate più a proprio agio rispetto alla sinistra con le proiezioni pubbliche dell’anima umana.

I partiti progressisti tradizionali — e il Partito democratico è un caso di studio perfetto per questa tendenza — hanno invece costruito la propria narrativa contemporanea su una pretesa di azione razionale “adulta”; e va benissimo, la razionalità è bellissima, ed è importante. In fondo tutto quello che chiedono i movimenti per il clima e gli scienziati è di essere razionali, e fare la scelta razionale di non estinguersi. Le sinistre però hanno con il tempo confuso la razionalità con la manutenzione dell’esistente e la sterilizzazione delle emozioni.

Lo scollamento sociale di cui tanto si parla nel Pd dei mesi pre congresso viene anche da lì. Saper dialogare con le emozioni e con il dolore politico accumulato in questi anni permetterebbe ai partiti l’accesso a quel patrimonio di elaborazioni, di idee, di pratiche che sono nate nel terreno fertile dell’attivismo climatico, che non è solo ambientalismo o protezione della natura, ma tentativo di ricomposizione delle fratture della società, a partire dalle disuguaglianze, che sono allo stesso tempo effetto e causa della crisi climatica e che in teoria sarebbero il mandato storico di qualsiasi sinistra.

Capire il cambiamento

Come dimostra il caso van Gogh, i movimenti stanno in parte combattendo ancora sul terreno dell’immaginario e delle percezioni, una battaglia che può essere considerata già a buon punto verso la vittoria: la nostra società non è più quella del 2018, quando per la prima volta Extinction Rebellion bloccò le strade di Londra per giorni e Greta Thunberg iniziò a scioperare davanti al parlamento svedese.

Un altro fronte del movimento sta invece elaborando il fatto che le politiche energetiche e climatiche possono essere cambiate solo all’interno delle istituzioni e che i partiti sono un insostituibile strumento di azione per il clima. Se quelli esistenti non riusciranno a intercettare questa domanda di radicalità e di cambiamento, è prevedibile che alle prossime elezioni in Italia dovranno affrontare soggetti nuovi nati nel campo della sinistra proprio a partire dall’ambiente e dal clima.

Si parla spesso del ruolo dell’innovazione per contrastare la crisi climatica, quella tecnologica, quella industriale: un’innovazione che a oggi viene ancora troppo sottovalutata è quella politica, ed è da qui che può prendere spunto e di nuovo forza l’onda del cambiamento.

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