- Il caso Eni è pero sintomatico di una grande mistificazione che non riguarda solo la società del cane a sei zampe che sputa fuoco (a proposito, a quando un logo più “verde”?).
- La pressione di opinione pubblica e investitori perché le società energetiche diventino “verdi” crea il convincimento che la transizione energetica debba passare principalmente da una riduzione dell’offerta di energie fossili da parte delle società.
- Se però non cade anche la domanda (dal carburante per le auto al gas per il riscaldamento), o le società energetiche mantengono l’offerta di energia fossile, e si creano solo incentivi al green washing.
Una volta, le società come Eni si chiamavano compagnie petrolifere perché la loro attività consisteva nella ricerca e sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas. Una denominazione oggi desueta, anche se queste società traggono ancora la maggior parte degli utili dalle energie fossili. In futuro, tuttavia, la loro principale fonte di introiti è destinata a sparire.
Una prospettiva che si riflette nelle basse valutazioni del settore in Borsa: il prezzo medio delle quattro maggiori europee - Eni, Shell, BP, Total - in rapporto agli utili attesi nel 2022 è di 7,4 volte, la metà di quello dell’indice di mercato (15,4); un rapporto che è analogo a quella delle tre maggiori americane - Exxon, Chevron, Conoco (Fonte Factset).
I ricavi delle società energetiche derivano dallo sfruttamento di giacimenti che nel tempo di esauriscono; in passato, quindi, una parte sostanziale dei ricavi veniva destinata alla ricerca di nuovi giacimenti per rimpiazzare quelli in esaurimento.
La transizione verde impone però un drastico ridimensionamento degli investimenti in ricerca: si stima che il prossimo anno le sette maggiori società europee e americane li taglieranno complessivamente per 72 miliardi di euro rispetto all’anno di massima espansione (2013-2015), quasi dimezzandoli (-47 per cento); anche i tagli di Eni sono in linea con la media del settore.
La decisione cruciale per le società energetiche è dunque cosa fare di tutta la cassa che una volta veniva assorbita dall’attività esplorativa, resa ancor più consistente dai rialzi dei prezzi di gas e greggio, oltre che dagli eventuali introiti dalla vendita di giacimenti, come per esempio quello ceduto di recente da Shell nel bacino del Permian (Texas) per quasi 10 miliardi.
Semplificando, ci sono due strategie che vedono Chevron ed Eni agli antipodi, e che riflettono i differenti tratti delle compagnie americane rispetto alle europee dovuti alle differenti sensibilità politiche e sociali rispetto all’ambiente.
Chevron ritiene che la domanda di energia fossile rimarrà molto forte ancora molto a lungo, perché oltre 1 miliardo di auto con motore a scoppio continueranno a circolare nel mondo, senza contare navi, aerei, autocarri, il riscaldamento delle case e la domanda dell’industria; e stima che i tagli agli investimenti nella ricerca e sviluppo di giacimenti contribuiranno a sostenere i prezzi di gas e greggio, come l’attuale crisi energetica insegna.
Non volendo poi investire nelle rinnovabili perché ritiene che l’affollamento in questo campo ridurrà sostanzialmente i rendimenti ottenibili, preferisce restituire i profitti agli azionisti, lasciando a loro la libertà di investire nell’ambiente come meglio credono.
Modello Eni
All’estremo opposto c’è Eni. Come Chevron, continua a generare la maggior parte dei profitti dall’attività estrattiva, ma preferisce usare i cash flow per investire in attività “verdi”, e che in parte prefigurano un futuro da utility elettrica (implicito nella scommessa sulle rinnovabili), messaggio rafforzato dallo scorporo della rete di distribuzione ex Eni Luce&Gas nella società Plentitude di prossima quotazione. Affrettato tuttavia concludere che Eni, e le altre europee, tutelino maggiormente gli interessi di tutti gli stakeholders, mentre Chevron, e le altre americane, privilegino solo gli azionisti.
Primo, perché anche Eni per molti anni ancora genererà le risorse finanziarie prevalentemente con lo sfruttamento delle energie fossili (si stima 96 per cento del risultato operativo nel triennio 2019-2022). Secondo, perché l’elevata dispersione degli investimenti “verdi” di Eni più che una chiara e razionale strategia per il futuro, sembra motivata dal desiderio di migliorare la propria immagine sul mercato per avvantaggiarsi, con una girandola di annunci, del premio che gli investitori attribuiscono oggi alle società con il miglior rating ambientale.
Si spiegherebbero così gli acquisti di parchi fotovoltaici ed eolici in giro per il mondo (recentemente, Francia, Australia e nel Mare del Nord), l’investimento nel nucleare (visto che sta diventando sempre più verde), o l’enfasi per i biocarburanti, anche se la tecnologia è vecchia quanto il motore diesel, e rimane un segmento di nicchia per via dei danni collaterali all’agricoltura e alle foreste: i ricavi complessivi delle 5 maggiori società specializzate al mondo sono appena un settimo di quelli della sola Shell.
Anche la scissione e quotazione di Plentitude serve solo a ricercare una valutazione più elevata in Borsa: centrali, gas e clienti serviti sono gli stessi di prima, ma come “utility” aspira a una valutazione in linea con la media di settore, pari a 15 volte gli utili attesi rispetto alle 8 di Eni.
Un insegnamento per Eni potrebbe invece venire dalla danese Orsted: nata come società petrolifera nel Mare del Nord, è uscita completamente dall’attività estrattiva, ma ha sfruttato la conoscenza di quel territorio per focalizzarsi nell’energia eolica e trasformarsi in una utility a tutti gli effetti. Un caso di successo (Ortsed vale oggi quanto Eni) dovuto però alla specializzazione e a una posizione consolidata grazie al vantaggio di essere partita per prima.
La dispersione degli investimenti “verdi” dell’Eni sembra anche utile a intercettare le risorse pubbliche che l’Europa e il Pnrr italiano mettono a disposizione per la transizione verde. E quando non è possibile, come nel caso del “carbon capture” per il gas di Eni usato nella raffinazione, arriva in soccorso il Governo italiano con un finanziamento a questo scopo opportunamente inserito nella Legge di Bilancio 2022 (art. 127 del testo del 28 ottobre).
Parafrasando il proverbio, è proprio vero che l’abito “verde” non fa il monaco. E alla lunga rischia anche di essere una strategia perdente se il premio che la Borsa attribuisce oggi alle società “verdi” risultasse l’ennesima bolla e gli investitori tornassero un domani a concentrarsi su utili e redditività.
La grande mistificazione
Il caso Eni è pero sintomatico di una grande mistificazione che non riguarda solo la società del cane a sei zampe che sputa fuoco (Plenitude ha già un logo più “verde”).
La pressione di opinione pubblica e investitori perché le società energetiche diventino “verdi” crea il convincimento che la transizione energetica debba passare principalmente da una riduzione dell’offerta di energie fossili da parte delle società.
Se però non cade anche la domanda (dal carburante per le auto al gas per il riscaldamento), o le società energetiche mantengono l’offerta di energia fossile, e si creano solo incentivi al green washing; oppure, se queste cessano l’attività estrattiva per passare alle rinnovabili, si fa un regalo a Russia, Arabia Saudita e Opec, pronte a rimpiazzare l’offerta, e ai fondi di private equity che stanno facendo incetta dei giacimenti venduti dalle compagnie petrolifere.
In entrambi i casi, con ben pochi benefici per l’ambiente. Ma la riduzione della domanda di energia da fonti fossili spetta ai Governi, attraverso un aumento nel costo dei prodotti energetici per scoraggiarne l’utilizzo: razionale, ma poco realistico perché socialmente e politicamente insostenibile.
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