- Hynet è un ampio progetto di decarbonizzazione dell’area industriale inglese intorno a Liverpool al quale partecipa Eni come operatore di cattura e stoccaggio della CO2
- Tutta la decarbonizzazione promossa da Eni agli inglesi (e finanziata in parte con soldi pubblici) passa dalla produzione di idrogeno blu, fatto con il gas e con le emissioni riassorbite da cattura e stoccaggio della CO2
- Accademici e ambientalisti sono in rivolta, perché la cattura e stoccaggio della CO2 non ha mai dimostrato di poter lavorare su questa scala, e perché il progetto rischia di prolungare a tempo indefinito l’estrazione di gas
Thornton-le-Moors è la quintessenza del piccolo villaggio nel nord dell’Inghilterra: prati, strade e case, un pub e una chiesa del tredicesimo secolo circondata da un cimitero dove le tombe più antiche sono datate alla fine dell’Ottocento. Sarebbe l’immagine stessa della pace campagnola britannica, e invece è una specie di silenzioso inferno dei combustibili fossili, un campo di battaglia su cosa è e cosa può diventare la transizione energetica di un paese industrializzato. In questo minuscolo paesino inglese si decide un pezzo del futuro delle infrastrutture che causano la crisi climatica.
Il progetto Hynet
Da ogni angolo del villaggio si vedono le ciminiere della Stanlow Oil Refinery (fino al 2011 di proprietà di Shell, oggi di Essar Energy), un’immensa raffineria da 270mila barili al giorno. Per gli abitanti ormai fa parte del paesaggio, ma contro questo mostro energetico ci sono stati decenni di proteste: Thornton-le-moors è rimasta una zona di sacrificio, una di quelle aree dove la qualità della vita è compromessa dalle esigenze della produzione fossile. Siamo a mezz’ora di auto da Liverpool, in una delle aree più industrializzate e inquinate del Regno Unito, un contesto che nel prossimo decennio sarà al centro di un progetto di decarbonizzazione che ha tra i suoi protagonisti anche l’italiana Eni.
La soluzione trovata per ridurre le emissioni di quest’angolo di industria tra l’Inghilterra occidentale e il nord del Galles si chiama Hynet, un progetto di transizione energetica che è diventato il nuovo nemico dell’ambientalismo locale. Quella contro Hynet è una battaglia per il cuore della transizione, quella tra energia pulita ed energia «ripulita». È una storia industriale che oggi si svolge nel Regno Unito, ma che presto potrebbe riguardare anche l’Italia.
Il modello venduto alle industrie e alle comunità della zona come chiave per la decarbonizzazione è basato sull’idrogeno, ed è inevitabile che sia così. Da tempo questo vettore energetico è stato individuato come la soluzione per ridurre e poi azzerare le emissioni della produzione industriale, quelle più difficili da abbattere, per la scala e l’intensità energetica richiesta. Vetrerie, cementifici, acciaierie, fabbriche di fertilizzanti, esattamente la composizione del tessuto industriale intorno a Liverpool. Il punto è quale idrogeno?
Due tipi di idrogeno
L’idrogeno può essere di diversi tipi, a seconda di come viene prodotta l’energia di cui è vettore. Ogni tipo di idrogeno è associato a un colore. La battaglia per la transizione si gioca proprio sul colore, verde quando è prodotto da rinnovabili e blu quando viene dal gas, che è un combustibile fossile e quindi non riduce né l’inquinamento dell’estrazione e della produzione né le emissioni, a meno che non venga catturato da tecnologie apposite (chiamate Ccs, cattura e stoccaggio della CO2) e conservato in depositi sotterranei.
È esattamente questa la strada che Eni, parte del consorzio Hynet, ha promosso con gli inglesi, riuscendo a mettere in piedi cantieri che in Italia non hanno trovato supporto nemmeno nel PNRR, come l’analogo progetto di Ccs al largo di Ravenna.
La raffineria di Stanlow è il centro nevralgico della nuova filiera di quello che i suoi sostenitori definiscono «low carbon hydrogen», una formula che indica come le emissioni saranno ridotte, ma che non c’è la prospettiva di azzerarle (come avverrebbe con idrogeno verde) e che l’estrazione di gas continuerà a rimanere il pilastro energetico del Regno Unito per i prossimi decenni, l’esatto contrario dei piani di net zero. In sintesi, il gas delle piattaforme nella baia di Liverpool (incastonate tra giganteschi parchi eolici, paradosso dei paradossi) viaggia fino alla raffineria, dove viene trasformato in idrogeno blu. La CO2 dal processo fa il percorso contrario e finisce nei giacimenti di gas che mano mano vengono svuotati.
L’idrogeno viene poi distribuito alle industrie pesanti della zona e conservato dentro le strutture di vecchie miniere di sale. Parte dell’idrogeno prodotto da Hynet finirà anche nel riscaldamento domestico degli edifici privati: per ora c’è un progetto pilota, in un altro villaggio della zona, Whitby. Scegliere di riscaldare le case usando una versione evoluta del gas e non l’energia elettrica prodotta da rinnovabili attraverso pompe di calore è un altro biglietto d’ingresso per il futuro staccato a vantaggio di una fonte fossile, il gas, che in teoria sarebbe destinata a rimanere nel passato.
Eni protagonista
Il ruolo di Eni è centrale: è suo il terminal di arrivo del gas sulla costa, quello di Point of Ayr, a poche centinaia di metri da una deprimente località turistica, una zona di sacrificio balneare che un tempo era tra le più amate di questa costa. Ed è suo il sistema di cattura e stoccaggio della CO2, che farà viaggiare negli stessi tubi, ma lungo il percorso contrario, 4,5 milioni di tonnellate di gas serra, per conservarli nei giacimenti svuotati dal gas. È un azzardo tecnologico, geologico e climatico quello in cui si stanno mettendo gli inglesi insieme a Eni.
Tecnologico, perché la cattura e stoccaggio della CO2 non ha dimostrato di poter lavorare su questa scala. Secondo una ricerca dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis dieci dei tredici progetti di Ccs messi in piedi nel mondo hanno fallito i propri obiettivi. Geologico, perché i rischi sismici o di dispersione della CO2 sono stati sottolineati da diverse ricerche, anche se dal consorzio Hynet fanno sapere che ogni precauzione è stata presa. Climatico, perché il processo di trasformazione del gas in idrogeno ha comunque emissioni di CO2 che non vengono interamente compensate, anche negli scenari più rosei.
Hynet è il prototipo di una transizione nella quale l’unica vera certezza è che il gas rimane a tempo indeterminato al centro del sistema energia, nonostante abbia dimostrato la sua volatilità e non possa essere nemmeno più considerato energia di transizione, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). L’altra certezza sono i soldi pubblici pompati nel progetto: 33 milioni di sterline (37 milioni di euro, la metà dei 72 milioni di sterline di costo finale). Il sistema Hynet dovrebbe diventare operativo entro il 2025.
Il tassello mancante
L’importanza di questo progetto va oltre le emissioni dell’area di Liverpool o le prospettive di Hynet. Da come produrremo l’idrogeno dipende il futuro della transizione, e in Inghilterra sta vincendo il punto di vista di chi quel futuro lo vede ancora fossile. L’idrogeno è considerato «la superstar dell’energia», la sua domanda si è triplicata negli ultimi decenni secondo la Iea, è il tassello mancante per le parti più difficili della decarbonizzazione. Ci sono una serie di processi produttivi, come quelli chimici, che possono diventare puliti solo grazie all’idrogeno.
Il problema è che quello blu, come quello di Eni in Inghilterra, ha un impatto sul futuro della Terra opposto a quello chiesto dall’accordo di Parigi. Secondo una ricerca pubblicata nel 2021 su Energy Science & Engineering, l’idrogeno con cattura e stoccaggio della CO2 (come quello di Hynet) ha solo il 9 per cento dell’impatto in meno di quello grigio (senza cattura e stoccaggio). Senza considerare le emissioni di metano, il cosiddetto flaring: quelli delle piattaforme di gas al largo della costa inglese si vedono benissimo dalla spiaggia e secondo un altro rapporto Iea fino a quest’anno sono state sottostimate del 70 per cento dalle major dell’energia. Un problema enorme, dal momento che il metano è un gas 80 volte più pericoloso della CO2 (anche se dura in atmosfera molto meno).
«L’idrogeno è fondamentale per i processi industriali che non hanno altra strada per diventare puliti», spiega David Cebon, docente di ingegneria meccanica all’università di Cambridge, «ma l’unico realmente pulito è l’idrogeno verde fatto da rinnovabili. L’unica policy che avrebbe senso è indirizzare i fondi pubblici lì, perché la tecnologia per l’idrogeno verde è pronta, è solo molto costosa, mentre la cattura della CO2, presupposto di tutto il sistema idrogeno blu, non ha ancora dimostrato la sua efficacia».
Progetti come Hynet hanno l’effetto di spingere risorse verso sistemi energetici del cui funzionamento non siamo certi e che mantengono un impatto pesante sul clima. Dal punto di vista dell'industria fossile hanno però l'indubbio vantaggio di garantire decenni di futuro a una fonte energetica che oggi mettiamo in discussione per motivi climatici, geopolitici ed economici. È per questo che sul colore della superstar dell’energia oggi si decide il futuro della transizione. «Se vince l’idrogeno blu non solo il gas non viene mandato in pensione, ma avremo bisogno di ancora più gas per mandare avanti tutta l’industria, per non parlare del riscaldamento domestico».
Salvaguardia del gas
L’esperimento di usare l’idrogeno blu di Hynet per il riscaldamento domestico è una parte minore del progetto, ma è una spia significativa della stessa tendenza: salvare il gas a ogni costo. Il progetto pilota prevede la conversione del riscaldamento domestico da gas a idrogeno blu entro il 2025 per qualche migliaio di utenze nel villaggio di Whitby. È un test per vedere se lo switch funziona e come risponde la popolazione. Se i risultati saranno positivi, la conversione da gas a idrogeno blu fatto col gas verrà estesa. La logica è questa: usare oggi l’idrogeno blu (sporco ma ripulito, nelle condizioni spiegate sopra) nelle case, con la promessa che un giorno, quando converrà economicamente, si possa usare quello verde (pulito e decarbonizzato).
«In realtà questa strategia non ha senso», spiega Cebon, «Anche se usassimo quello verde, l’idrogeno da mandare nei boiler a metano è molto più dispendioso che cambiare quegli stessi boiler in pompe di calore per usare direttamente l’elettricità». In pratica, secondo una sintesi dell’università di Cambridge, per ottenere 70 GW di riscaldamento domestico (il fabbisogno inglese) attraverso l’idrogeno verde servirebbero 150 GW di rinnovabili. Per arrivare allo stesso risultato usando pompe di calore, passando dall’elettrificazione, ne basterebbero 26 di GW: le pompe di calore sono di gran lunga lo strumento più efficiente per riscaldare le case. «Il punto è che lo sanno già, ma ci fanno viaggiare verso un futuro in cui le case inglesi non avranno convertito i boiler a metano in pompe di calore, non ci saranno abbastanza rinnovabili per fare tutto quell’idrogeno verde, e quindi rimarremo incastrati a lungo termine con quello blu, quindi con il gas».
Processo inarrestabile
Sembra difficile in questo momento fermare l’inerzia dello sviluppo di Hynet, nonostante le resistenze della comunità locale, spaventata soprattutto dall’idea della persistenza del gas, che qui ha un impatto ecologico forte, dal possibile ritorno del fracking alle continue fiammate di flaring, per non parlare della raffineria di Stanlow. La politica locale, compresi i rappresentanti del partito laburista (che qui è maggioritario), appoggia Hynet.
Will Pearson è il climate change strategy manager per la zona del Cheshire, dove ricade quasi tutto il progetto, «Dobbiamo per forza lavorare con le imprese e la loro capacità di innovare per ridurre le nostre emissioni e raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissati. Il 50 per cento delle emissioni dell'area vengono da grandi industrie, per noi Hynet è la faccia che deve avere la green economy».
È simile la laconica risposta di Eni alla richiesta di un’intervista: «La strategia di Eni verso la neutralità carbonica è articolata in un piano di trasformazione industriale solido e concreto che si basa su diverse soluzioni economicamente fattibili e tecnicamente realizzabili, di cui una è la Ccs. Eni può mettere a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze a supporto della decarbonizzazione di distretti produttivi ed energivori tradizionali. Ciò consentirà di mantenere il livello occupazionale esistente, generando anche nuove opportunità di lavoro per le comunità locali, grazie alla creazione di nuove filiere “low o zero Carbon”».
La lotta ambientalista
Oltre agli accademici, non la pensano così le organizzazioni ambientaliste della zona, che da un anno si sono mobilitate in una piattaforma politica chiamata Hynot. «L’idrogeno blu ci costringerà ad altri trent’anni di estrazione di gas nell’area di Liverpool, è una porta aperta al ritorno del fracking», spiega Don Naylor di Friends of the Earth. «È un tema sul quale è difficile costruire una mobilitazione, perché è meno evidente di una nuova autostrada, ma è davvero qualcosa su cui ci bruciamo il futuro».
Anche le generazioni più giovani, come Fridays for Future, si sono schierate contro il nuovo progetto e contro Eni in particolare. Come dice Will Phillips, portavoce locale, «Questa è una regione ferita, che si sta impoverendo, e la decarbonizzazione fatta col gas è solo l’ennesimo ricatto industriale sulla pelle delle comunità povere in nome di un’idea vecchia di sviluppo».
Non è diversa l’opinione delle organizzazioni che seguono Eni dall’Italia, come ReCommon, che per bocca di Antonio Tricarico fa sapere che «La cattura e lo stoccaggio della CO2 del progetto HyNet sono la punta di diamante del greenwashing climatico di Eni. Con il prezzo del gas così alto, se non ci fosse un immenso impiego di soldi pubblici dei contribuenti inglesi nessuno si avventurerebbe in tecnologie dal dubbio successo e nella produzione di idrogeno da fonte fossile che non avrà mercato»
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