- La transizione è un pranzo di gala a cui non può mancare nessuno, neppure i settori più inquinanti. O almeno così pare dando un occhiata alle società in cui investono molti asset manager nazionali e internazionali.
- Nonostante infatti in molti si dichiarino a favore di una transizione sostenibile, stando ai dati raccolti da FinanceMap troppi i fondi Esg hanno esposizioni significative a industrie inquinanti.
- In Italia un fondo di Generali apertamente dedicato alla sostenibilità come Alto ESG Innovazione Sostenibile con masse in gestione per 214 milioni di euro investe il 12 per cento della propria raccolta in aziende collegate all’industria del petrolio
La transizione è un pranzo di gala a cui non può mancare nessuno, neppure settori più inquinanti. O almeno così pare dando un occhiata alle società in cui investono molti asset manager nazionali e internazionali. Nonostante infatti in molti si dichiarino a favore di una transizione sostenibile, stando ai dati raccolti da FinanceMap –e che Domani ha ottenuto in anteprima – troppi fondi Esg hanno esposizioni significative all’industria dell’automotive, del petrolio e del gas, del carbone e in generale di settori energivori e inquinanti. In Italia, ad esempio, un fondo di Generali apertamente dedicato alla sostenibilità come Alto ESG Innovazione Sostenibile con masse in gestione per 214 milioni di euro (al 31 marzo) investe il 12 per cento della propria raccolta in aziende collegate all’industria del petrolio come Shell, Total ed Equinor. Stesso discorso vale per un altro fondo – sempre di Generali – il Generali Alto ESG Internazionale Azionario che con masse in gestione per circa 300 milioni di euro (al 31 marzo) conta partecipazioni in Exxon Mobil, Chevron, Shell, Total e Woodside Energy, una delle maggiori società australiane di esplorazione e produzione di gas e petrolio.
Complessivamente Generali investe circa il 10 per cento delle masse in gestione in attività collegate a settori inquinanti. Di questo 10 per cento il 5 risulta investito in società collegate al settore oil&gas, il 4 per cento in quello dell’energia e il restante diviso tra il settore automotive e l’industria carbonifera. Ma ci sono anche peformance peggiori: per fare un paragone Eurizon, la consociata lussemburghese del gruppo Intesa Sanpaolo, nonostante disponga di una minore quantità di masse in gestione 300 milioni contro i quasi 600 di Generali, investe complessivamente il 14 per cento in attività inquinanti. In particolare le maggiori esposizioni riguardano investimenti collegabili al settore automotive e a quello dell’industria del petrolio.
Il metro degli accordi di Parigi
I dati provengono da FinanceMap la piattaforma online del think tank anglosassone ClimateHub, fondato nel 2015 per monitorare gli accordi climatici presi a Parigi, che raccoglie ed esamina il settore finanziario attraverso la lente climatica. In particolare basandosi sul Lipper Leaders Rating System – un sistema di valutazione dei fondi comuni d’investimento di Thomson Reuters – il think tank identifica i fondi, i loro gestori e le partecipazioni in portafoglio associando ad ognuno di essi un punteggio sulla base della loro esposizione a società collegate a settori inquinanti. A oggi FinanceMap identifica e analizza a livello globale circa 30mila fondi azionari gestiti da oltre 1.200 asset manager.
Prima di procedere oltre, e andare ad analizzare più nel dettaglio le partecipazioni di altri fondi sostenibili, bisogna specificare come molti dei fondi citati, se non tutti, siano stati categorizzati come aricolo 8 della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR). Ovvero come fondi che promuovono caratteristiche ambientali e sociali ma non sono automaticamente vincolati a investire in determinati settori o emittenti. Si differenziano quindi dai fondi articolo 9 che invece devono perseguire necessariamente specifici risultati ambientali, sociali e di governance. A oggi i fondi articolo 8 sono il prodotto finanziario sostenibile più venduto in Europa rappresentando - secondo i dati raccolti da Morningstar - complessivamente il 53,5 per cento dei prodotti finanziari sostenibili venduti nel vecchio continente. E il dato è in aumento, visto che molti gestori per non dover sottostare ai nuovi standard tecnici, entrati in vigore questo gennaio, già a partire dallo scorso settembre hanno iniziato a declassare i loro fondi, da articolo 9 ad articolo 8.
Nel caso di Generali i fondi presi in esame sono vari e distribuiti tra l’Italia, come il fondo prima citato, il Lussemburgo e i mercati dell’est Europa. In questo senso sorprende la presenza di investimenti nel settore del carbone, dal momento che il gruppo aveva più volte comunicato la sua intenzione a partire dal gennaio 2022 di interrompere ogni investimento e/o assicurazione in questo settore. A marzo 2023 infatti risulta dai dati di FinanceMap un’esposizione - tutto sommato limitata - a questo settore, e in particolare a JSW, una delle maggiori società polacche di estrazione del carbone. Investimento che rispetto agli anni precedenti è diminuito, e che può essere spiegato nei termini già chiariti da ReCommon tempi addietro: «Per poter coprire la transizione delle società legate al carbone si chiudono le centrali in quanto tali, ma si mantengono le coperture a livello societario». Quindi nonostante Generali non investa più ha mantenuto le coperture assicurative in modo tale da favorire la transizione dal carbone al gas. Ma ci sono anche fondi assicurativi come quello polacco con asset gestiti per pressappoco un miliardo e 200 milioni di euro, che stando ai dati di FinanceMap investe almeno il 17 per cento della propria liquidità in attività collegate a settori inquinanti.
Stesso discorso, ma in misura diversa, vale anche per la consociata lussemburghese del gruppo Intesa. Anche in questo caso molti fondi articolo 8 tutti con partecipazioni in attività legate a industrie inquinanti. Come nel caso di Eurizon Fund Equity USA ESG che conta masse per 800 milioni di euro (al 6 aprile) e ne investe il 6 per cento in attività inquinanti. Stesso discorso per il fondo Eurizon Azioni Italia che annovera masse in gestione per 360 milioni di euro al (31 marzo) e ne investe circa il 50 per cento in settori energivori e inquinanti.
Intesa e Generali contattate per un commento hanno entrambe ribadito il ruolo che il settore del risparmio gestito ha nell’ambito della transizione energetica. Tuttavia se la transizione è quella da un settore inquinante a un altro altrettanto inquinante il gioco non vale la candela.
Intesa crede che «la transizione di settori come l’automotive, l’energy e l’oil&gas sia fondamentale per il raggiungimento degli ambiziosi piani di decarbonizzazione, pertanto la presenza di emittenti di tali settori in prodotti attenti alla sostenibilità va contestualizzata e considerata sia alla luce dell’effettivo impegno delle società nella transizione dei propri modelli di business, sia della possibilità di influenzarne i comportamenti tramite l’engagement». Tutto questo però mentre già due anni fa l’Agenzia internazionale dell’energia certificava l’inutilità e l’inopportunità di nuovi investimenti in carbone, petrolio e gas, mostrando come la transizione trainata dal gas fosse business as usual sotto altre spoglie.
Placida immobilità
In generale il comportamento degli asset manager nazionali presi in esame, si può riassumere in una posizione di placida immobilità. Se da una parte infatti la maggior parte delle istituzioni finanziarie nazionali si dichiarano a favore di livelli climatici al di sotto di 1,5°, abbiano aderito a programmi internazionali di diminuzione delle emissioni, come i Principles for Responsible Investments (Pri) delle Nazioni unite o la Net-Zero Asset Owner Alliance e facciano attivamente attività di engagement presso le aziende, non è chiaro fino a che punto stiano spingendo per maggiori regole. Se da una parte infatti non stanno facendo ostruzionismo alle politiche di finanza sostenibile, dall’altra non le stanno neppure supportando.
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