- I ghiacci che circondano l’Antartide sembravano poco intaccati dal cambiamento climatico. Ma ora non è più così: anche al Polo Sud i ghiacci si stanno sciogliendo come non mai
- Nuovi segreti sull’imbalsamazione degli Egizi sono venuti alla luce grazie all’analisi di vasi che contenevano materiale per il lavoro
- Le segnalazioni di attacchi di grandi carnivori contro l'uomo sono aumentate dal 1970 ad oggi, ma la frequenza e il contesto di questi attacchi dipendono anche da fattori socioeconomici e ambientali
Mai da quarant’anni a questa parte, ossia da quando si sono iniziati i rilevamenti satellitari dei ghiacci polari, la superficie del ghiaccio marino dell’Antartide (quello che si trova attorno al continente antartico, appoggiato sul mare) è così ridotta: si estende infatti per soli 2,2 milioni di chilometri quadrati nell’oceano Antartico.
Già a gennaio la situazione aveva stabilito un nuovo record di estensione negativa, raggiungendo i 3,22 milioni di chilometri quadrati, quando la media è di circa 3,8 milioni di chilometri quadrati.
Un record preoccupante
Spiega Christian Haas, capo della Sezione di Fisica del Ghiaccio marino presso l’Alfred Wegener Insitute che ha riportato i dati della situazione attuale: «L’8 febbraio 2023, quando l’estensione dei ghiacci era a 2,2 milioni di chilometri quadrati, si era già al di sotto del precedente record negativo del 2022 (sceso a 2,27 milioni di chilometri quadrati) e poiché è prevedibile che la fusione dei ghiacci continuerà fino ai primi di marzo è davvero difficili ipotizzare a quanto arriverà questo minimo storico. C’è da sottolineare che il rapido declino del ghiacciaio marino avvenuto negli ultimi sei anni è notevole, dal momento che nei 35 anni precedenti la copertura di ghiaccio era praticamente rimasta immutata».
La fusione è iniziata senza avere sosta a dicembre 2022, specialmente nei mari Bellingshausen e Amundsen, nell’Antartide occidentale, e ad oggi il primo è praticamente privo di ghiaccio. Questo è anche il luogo in cui ha lavorato a lungo negli ultimi mesi la nave da ricerca Polarstern, che sta studiando le testimonianze lasciate dai ghiacciai e dai periodi interglaciali del passato. Secondo il responsabile della spedizione geofisica dell’Helmholtz Center for Polar and Marine Research (AWI), Karsten Gohl, che ha lavorato nella regione per la settima volta, dopo essere arrivato per la prima volta nel 1994, la situazione è davvero esasperata.
Spiega: «Non ho mai visto una situazione così estrema e priva di ghiacci prima d’ora. La piattaforma continentale, un’area grande come la Germania, è completamente libera dai ghiacci. Sebbene queste condizioni siano vantaggiose per il nostro lavoro sul campo, è preoccupante se si pensa a quanto velocemente sia avvenuto questo cambiamento». Nel corso dell’anno, il ghiaccio marino antartico raggiunge generalmente la massima estensione a settembre o ottobre e la minima a febbraio. In alcune regioni, il ghiaccio marino si fonde completamente in estate, ma in altre rimane anche durante la stagione più calda. In inverno, il clima freddo in tutto l’Antartide favorisce la rapida formazione di nuovo ghiaccio marino.
Al suo massimo, la copertura del ghiaccio che appoggia sul mare attorno all’Antartide è generalmente compresa tra 18 e 20 milioni di chilometri quadrati. In estate, si riduce a circa 3,8 milioni di chilometri quadrati, mostrando una variabilità annuale naturale molto maggiore rispetto al ghiaccio dell’Artico.
Inoltre, il ghiaccio marino antartico è molto più sottile rispetto alla sua controparte artica e appare solo stagionalmente, il che spiega perché, per molto tempo, il suo sviluppo è stato considerato impossibile da prevedere se non a distanza di pochi giorni. Negli ultimi anni, tuttavia, la scienza ha scoperto diversi meccanismi che permettono di prevedere lo sviluppo del ghiaccio marino su scale temporali stagionali. Conoscere la presenza di ghiaccio marino con settimane o mesi di anticipo è di grande interesse per la navigazione antartica.
Le analisi dell’attuale estensione del ghiaccio marino, condotte dal gruppo del Sea Ice Portal, mostrano che, per l’intero mese di gennaio 2023, il ghiaccio ha raggiunto la sua estensione più bassa mai registrata per il periodo dell’anno dall’inizio della registrazione, nel 1979. Per quanto riguarda il suo sviluppo a lungo termine, il ghiaccio marino antartico mostra una tendenza al calo del 2,6 per cento per decennio. Questo è l’ottavo anno consecutivo in cui l’estensione media del ghiaccio marino a gennaio è stata inferiore alla tendenza a lungo termine.
Anche i documenti storici riflettono gli enormi cambiamenti in atto. Ad esempio, nell’estate antartica di 125 anni fa, la nave da ricerca belga Belgica è rimasta intrappolata nell’enorme banchisa per più di un anno, esattamente nella stessa regione in cui la Polarstern può ora operare in acque completamente prive di ghiaccio. Le fotografie dei diari dell’equipaggio della Belgica offrono una cronaca unica delle condizioni del ghiaccio nel mare di Bellingshausen all’alba dell’èra industriale, che i ricercatori del clima usano spesso come punto di riferimento per il confronto con il cambiamento climatico in atto. L’intensa fusione dei nostri giorni ha diverse cause, ma la principale potrebbe essere dovuta a temperature dell’aria insolitamente elevate a ovest e ad est della penisola antartica, che sono all’incirca 1,5°C sopra la media pluriennale.
I segreti dell’imbalsamazione egizia
In uno studio pubblicato su Nature sono state identificate specifiche ricette dell’antico Egitto per miscele chimiche utilizzate nell’imbalsamazione di diverse parti del corpo umano, che finora non erano note e fanno avanzare le conoscenze dei processi coinvolti nell’antica mummificazione egizia. Il processo nell’antico Egitto era lungo, complesso e comportava l’uso di molte diverse sostanze per l’imbalsamazione. La conoscenza attuale dei materiali per il processo deriva principalmente dalla letteratura antica e dalle analisi dei residui organici delle mummie egizie. Sebbene gli studi precedenti abbiano identificato con successo varie sostanze utilizzate nell’imbalsamazione, i ruoli dei vari componenti durante il processo e la procedura complessiva sono rimasti in gran parte poco chiari.
Maxime Rageot, Philipp Stockhammer e colleghi hanno analizzato 31 vasi in ceramica recuperati da un laboratorio di imbalsamazione a Saqqara, in Egitto, che risale alla 26ma dinastia egizia (664-525 a.C.). Tali vasi sono incisi con testi che forniscono istruzioni per l’imbalsamazione (come «mettere sulla testa» o «bendare/imbalsamare») e/o nomi delle sostanze per l’imbalsamazione. I recipienti contengono anche residui di sostanze che vennero utilizzate a quel tempo. Queste informazioni, nel loro insieme, hanno permesso ai ricercatori di capire quali sostanze chimiche sono state utilizzate durante la mummificazione e come sono state mescolate, denominate e applicate. Gli autori, ad esempio, hanno trovato tre diverse miscele, che includevano sostanze come resina di elemi (un albero noto per una resina oleosa), resina di albero di pistacchio, sottoprodotti di ginepro o cipresso e cera d’api, che erano specificamente utilizzate per l’imbalsamazione della testa.
Confrontando le miscele identificate attraverso l’analisi dei residui con le etichette incise, i ricercatori hanno scoperto che la traduzione abituale dell’antica parola egiziana antiu come mirra o incenso a volte può essere errata, poiché in quel contesto non rappresentava una singola sostanza ma invece una miscela di oli profumati o catrame con grasso. Gli autori hanno anche dimostrato che molte delle sostanze per l’imbalsamazione provenivano dall’esterno dell’Egitto: ad esempio, i prodotti di pistacchio e ginepro erano probabilmente importati da oriente e le resine di elemi potevano provenire dalle foreste pluviali del sud o del sud-est asiatico. Questo, concludono gli autori, dimostra il ruolo dell’antica mummificazione egiziana nel promuovere il commercio a lunga distanza con il Mediterraneo e oltre.
Crescono gli attacchi dei carnivori
Le segnalazioni di attacchi di grandi carnivori contro l’uomo sono aumentate dal 1970 ad oggi, ma la frequenza e il contesto di questi attacchi dipendono anche da fattori socioeconomici e ambientali. È questo il risultato di un nuovo studio di oltre 5.000 segnalazioni pubblicato sulla rivista Plos Biology di Giulia Bombieri del Muse di Trento, Vincenzo Penteriani del Museo Nazionale di Scienze Naturali (Csic) in Spagna e altri colleghi.
I ricercatori hanno raccolto informazioni sugli attacchi segnalati agli esseri umani da parte di 12 specie di carnivori di tre famiglie (Ursidae, Felidae e Canidae) tra il 1970 e il 2019 presenti in articoli scientifici pubblicati e non pubblicati, pagine web e notizie di vario genere. In questa raccolta dati hanno identificato 5.089 attacchi segnalati da grandi carnivori che hanno provocato lesioni, di cui il 32 per cento fatali. Il numero di attacchi segnalati è aumentato nel periodo di 49 anni, in particolare nei paesi a basso reddito.
Gli attacchi nei paesi ad alto reddito sono stati più comuni durante le attività ricreative, come l’escursionismo, il campeggio o le passeggiate con propri animali domestici, mentre quasi il 90 per cento degli attacchi nei paesi a basso reddito si sono verificati durante attività legate a lavori di sussistenza come l’agricoltura, la pesca o il pascolo del bestiame. I felini e i canidi selvatici sono stati responsabili di più attacchi predatori, mentre gli orsi hanno mostrato una maggiore aggressione quando sorpresi della presenza dell’uomo, hanno voluto difendere i propri cuccioli o in interazioni legate al cibo.
La maggior parte degli attacchi mortali si sono verificati nei paesi a basso reddito dove sono presenti tigri e leoni. Gli autori affermano che gli approcci per ridurre gli attacchi dei grandi carnivori dovrebbero essere adattati al contesto socioeconomico. Nei paesi ad alto reddito, le campagne per educare i visitatori e i residenti nelle grandi aree carnivore su come comportarsi nelle aree a rischio e su come evitare incontri pericolosi potrebbero essere efficaci.
Al contrario, nei paesi a basso reddito, dove la coesistenza con i grandi carnivori è per lo più involontaria, i cambiamenti di zonizzazione che separano gli esseri umani e il bestiame dagli habitat dei grandi carnivori, l’espansione delle aree protette e il ripristino della connettività degli habitat sarebbero strategie più appropriate. Queste misure preventive possono essere difficili da implementare man mano che la popolazione mondiale cresce.
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