Tutto sembra andare a rotoli sul clima. Alla crudezza dei numeri sull’innalzamento delle temperature del pianeta, in drammatico anticipo sulle previsioni dell’Ipcc, si aggiungono quelli sulle emissioni in risalita dopo la pandemia e ora l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, che riduce ulteriormente la già scarsa credibilità che avevano gli impegni presi dai paesi sulla riduzione della CO2.

Mai come oggi ci sarebbe bisogno dell’Europa, di un Europa capace di rilanciare un ambizioso e multilaterale progetto di decarbonizzazione.

Il problema è che il vecchio continente non arriva pronto a questo appuntamento, anzi per la prima volta deve fare i conti con un crescente rigetto dell’opinione pubblica nei confronti del Green Deal e riflettere sul paradosso di essere la parte del mondo dove è più chiaro l’impegno verso la decarbonizzazione e al contempo quella meno competitiva nel mercato globale. E che per questo ha urgente bisogno di ridefinire il proprio ruolo e la propria traiettoria verso il futuro.

Il panorama cinese 

Da dove ripartire? In questi anni si è spostato verso oriente il cuore pulsante della spinta industriale verso la decarbonizzazione. Nel 2024 in Cina si sono installati due terzi degli impianti solari fotovoltaici di tutto il mondo. In dieci anni i costi dei pannelli si sono ridotti del 90 per cento e la ricerca applicata su materiali e efficienza continua.

In Cina oramai più della metà delle auto vendute è elettrica e la cinese Byd è oggi la più grande e innovativa azienda al mondo nel settore, avendo scalzato la Tesla, e ha annunciato la messa in produzione di un sistema di batterie capace di ricaricare in cinque minuti energia per percorrere 400 chilometri.

Meno noti sono i progressi in corso nel campo della geotermia a bassa entalpia per riscaldare le case, con sistemi connessi a pompe di calore che utilizzano il sottosuolo – che ha temperature costanti – per ridurre i costi di riscaldamento. 

Anche in questo caso i numeri sono giganteschi, con impianti che sono quattro volte quelli del resto del mondo e sempre per portare avanti gli stessi obiettivi di tutte le altre tecnologie citate: ridurre i costi e i consumi energetici, creare una filiera industriale da esportare nel mondo, diminuire drasticamente le importazioni di gas e arrivare «in 20 anni a eliminare quelle di petrolio».

Così si legge non nei rapporti di Greenpeace ma nei documenti ufficiali del Partito comunista cinese. Più questi interventi andranno avanti rendendo competitive e accessibili queste tecnologie e prima in tutto il mondo sarà possibile aprire uno scenario credibile di sviluppo a emissioni zero.

Il ruolo europeo

In uno scenario industriale che viaggia a queste velocità, che ruolo può ancora svolgere l’Europa?

I dazi di Trump aprono oggi opportunità nuove e l’Europa deve giocare fino in fondo le sue carte per aprire un confronto con la Cina. Con lucidità deve costruire una partnership che consenta di difendere da un lato il proprio sistema di imprese da una concorrenza sempre più forte e dall’altro i consumatori europei, mettendo sul tavolo della discussione le regole di accesso al più grande e ricco mercato unico del mondo, con 460 milioni di persone.

E puntando sull’interesse reciproco a una più forte integrazione industriale a servizio di una accelerazione dei processi di decarbonizzazione. Il dato di fatto è che fino ad oggi la Cina ha puntato a diventare leader nelle tre tecnologie che sono il cuore del processo – solare fotovoltaico, auto elettriche, sistemi di accumulo – e ci è riuscita. Ma questo non vuol dire che il futuro industriale europeo sia segnato e in mano alle imprese cinesi o indiane.

Perché quelle tecnologie sono tasselli di settori che devono essere completamente ridisegnati e integrati: dalla siderurgia alla mobilità elettrica, dal riscaldamento e raffrescamento degli edifici fino alla gestione flessibile delle reti, solo per citare quelli principali.

È su questa trasformazione che vale la pena aprire un confronto pragmatico: sugli investimenti e gli accordi industriali che consentano di garantire un ruolo alle imprese europee nei nodi più importanti delle filiere produttive, sui nuovi stabilimenti e i progetti energetici su cui puntare per ridurre costi dell’energia e garantire la competitività sui mercati internazionali.

In sostanza una cooperazione strategica intorno alle sfide del clima, tra interlocutori che hanno interessi diversi ma che possono convergere su obiettivi comuni.

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