Nell'Italia settentrionale centinaia di uccelli selvatici stanno morendo per un'epidemia senza precedenti. Anche se in questo caso il contagio degli uomini è estremamente raro, possiamo imparare comunque qualcosa sul rapporto fra natura e la nostra salute. Con una prospettiva inquietante
Lo scorso weekend, in due soli giorni di lavoro, gli agenti della polizia provinciale di Brescia hanno recuperato più di 120 carcasse di gabbiani. Lungo il fiume Adige nelle ultime settimane è facile imbattersi nei resti di uccelli morti. Alcuni galleggiano sull’acqua e le foto sono state pubblicate sui social e sui giornali locali, come il presagio inquietante di un film horror di serie b.
Dallo scorso settembre a metà febbraio, l’Istituto zooprofilattico sperimentale delle venezie ha accertato 79 casi di positività alla stessa malattia, fra gabbiani, alzavole, germani e altri esemplari di rapaci e anatidi. In un caso a Sorgà, in provincia di Verona, il contagio si è diffuso in un allevamento di tacchini.
Il virus è quello dell’influenza comunemente nota come aviaria, proprio perché si diffonde soprattutto fra gli uccelli. Il sottotipo si identifica con una sigla: H5N1. Se si allarga lo sguardo a tutto il mondo, i focolai sono più diffusi e in alcuni casi assumono dimensioni preoccupanti. Talvolta il contagio ha fatto il salto di specie, passando dagli uccelli ai mammiferi.
E poi, finora con estrema rarità, anche agli umani. Lo scorso settembre, in Spagna, la positività al virus è stata confermata per due lavoratori, asintomatici, impiegati in un allevamento di pollame. Nel sud est della Cambogia, nella provincia di Prey Veng, sono stati contagiati un padre e la figlia di 11 anni. Quest’ultima è l’unica vittima finora accertata per questa ondata del virus.
Martedì il New York Times riportava in prima pagina che l’amministrazione Biden sta considerando una vaccinazione di massa del pollame, anche per ostacolare l’improvviso aumento dei prezzi delle uova.
Cambiamenti climatici
Nei giorni scorsi, il ministero della Salute italiano ha emanato una circolare per raccomandare una particolare attenzione per ridurre la diffusione della malattia. Il problema è lo stesso che abbiamo imparato a temere per il Covid-19: più il virus circola e maggiore è il rischio di una sua mutazione genetica. Teoricamente potrebbe adattarsi a diventare più pericoloso anche per gli uomini.
La notizia positiva è che in passato non sembrano esserci stati casi di trasmissione interumana. La notizia negativa è che il numero di focolai di aviaria ha avuto un’impennata vertiginosa negli ultimi due anni. Il rischio che possa passare dagli uccelli selvatici a quelli domestici, e quindi ad esempio agli allevamenti di pollame, è molto concreto. Potrebbero essere contagiati anche i cani e i gatti che entrano in contatto con le carcasse di uccelli infetti.
Ma c’è soprattutto un altro elemento da considerare che rende ogni virus degno di attenzione. Quello che succede oggi potrebbe essere semplicemente un anticipo del futuro, quando i cambiamenti climatici potrebbero portare alla diffusione di virus emergenti e di nuove malattie, anche alle nostre latitudini.
Ogni caso fa ovviamente storia a sé, ma gli scienziati non hanno dubbi che ci possa essere una correlazione diretta fra l’aumento delle temperature, la distruzione degli ecosistemi e la possibilità che insorgano patologie ora sconosciute, isolate o diffuse altrove nel mondo.
Gabbiani migranti
In un certo senso, qualcosa di molto simile è successo in Italia anche per l’influenza aviaria. In questo caso la colpa non è tanto dei grossi cambiamenti climatici, ma di piccole fluttuazioni di temperatura che hanno alterato il comportamento degli uccelli selvatici.
Calogero Terregino è il direttore del laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria: «Da metà gennaio abbiamo rilevato una situazione abbastanza anomala per l’Italia, soprattutto nei gabbiani comuni», spiega. «In Italia ci sono spesso casi di influenza aviaria negli uccelli selvatici, ma normalmente la circolazione del virus è sporadica, limitata ad alcuni casi singoli di animali deceduti».
Quest’anno qualcosa è cambiato. «L’abbassamento delle temperature ha spinto i gabbiani a lasciare i paesi dove il virus circola moltissimo, come il nord della Francia, il Belgio e il Regno Unito», spiega Terregino. «Attraverso un corridoio che è passato dalla Svizzera, i gabbiani infetti hanno raggiunto l’Italia e si sono insediati nella zona del lago di Garda».
I rinvenimenti di carcasse infette si sono concentrati soprattutto nel Veneto e in provincia di Brescia, ma qualche caso è stato confermato anche in altre zone della Lombardia, del Trentino e dell’Emilia-Romagna.
Un unico sistema
«Per questo tipo di virus, il livello di rischio per l’uomo non è cambiato molto rispetto al passato», spiega Terregino. «Non ci sono evidenze che abbia acquisito finora caratteristiche tali da renderlo trasmissibile in maniera efficace agli umani. Ma stiamo monitorando a livello europeo ogni possibile evoluzione».
Francesco Vaia, direttore generale dello Spallanzani, l’Istituto nazionale di malattie infettive, ha detto a “Uno mattina” che non ci troviamo di fronte a una nuova pandemia. Ma il Covid ci ha comunque insegnato che c’è una correlazione diretta fra quello che succede agli animali e quello che accade a noi. «Dobbiamo avere una visione sindemica e vedere tutto insieme», ha detto Vaia. «La salute dell’ambiente e degli animali è anche la nostra salute».
Le pandemie del futuro
L’emergenza attuale dell’influenza aviaria passerà probabilmente molto presto, quando i gabbiani infetti lasceranno l’Italia e migreranno altrove. Ma non sarà ovviamente la fine della lotta alle epidemie. «Gli scienziati concordano su questo punto: i cambiamenti climatici, abbinati alla distruzione di habitat naturali, porteranno a un aumento del rischio di nuove pandemie», dice Terregino. E il motivo è abbastanza intuitivo. «I serbatoi naturali di questi virus nuovi, ad esempio gli uccelli o i pipistrelli, saranno costretti ad avvicinarsi alle zone antropizzate e aumenteranno le interazioni con gli uomini». Virus che prima se ne stavano confinati avranno una circolazione maggiore, con conseguenze facili da immaginare.
Per averne un altro esempio bisogna tornare ancora una volta in Veneto, alla scorsa estate. La forte siccità ha creato secche d’acqua che sono diventate l’habitat ideale per le zanzare. Ovvero per il vettore di un’altra malattia: la West nile. Sempre la siccità ha portato a una maggiore concentrazione di uccelli selvatici portatori del virus, in questo caso passeriformi, che si sono avvicinati agli uomini in cerca d’acqua. Nelle zone urbanizzate si sono trovati dunque insieme il vettore e il serbatoio della malattia.
Fra giugno e ottobre 2022 sono stati segnalati in Italia 588 casi confermati di infezione da West nile nell’uomo. Hanno portato a 37 decessi.
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