- L’Italia è un paese ricco d’acqua. L’andamento pluviometrico italiano, che è di quasi 1.000 millimetri per metro quadrato l’anno, è superiore al livello medio globale e a quello europeo.
- Ma allora che fine fa tutta questa acqua? Di tutta l’acqua prelevata, poco meno della metà viene sprecata, a causa di infrastrutture obsolete e che non tengono conto del fatto che negli anni la domanda sia aumentata.
- C’è poi un altro grande paradosso tutto italiano. Mentre in diverse aree del paese di parla di razionamento, i prelievi nazionali di acque minerali per la produzione sono in costante aumento.
L’Italia è un paese ricco d’acqua. Sembra una contraddizione in termini, ma la verità è che l’andamento pluviometrico italiano, che è di quasi 1.000 millimetri per metro quadrato l’anno, è superiore al livello medio globale (969 millimetri per metro quadrato) e a quello europeo, che si attesta intorno agli 856 millimetri.
D’altro canto è indiscutibile che, da due anni a questa parte, stiamo registrando una costante riduzione dei volumi di pioggia, soprattutto in quelle regioni storicamente considerate ricche d’acqua. Ne è un esempio il Piemonte, e in generale tutto il nord ovest, che ha sperimentato riduzioni anche del 40 per cento rispetto ai valori registrati nel periodo 1980-2014.
«Il deficit è pronunciato in tutta Italia, in termini percentuali è più elevato al nord ovest ma anche al nord est», conferma Luca Brocchi dirigente di ricerca dell'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche (Irpi-Cnr).
Secondo l’ultimo bollettino rilasciato dall’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po il caso del Piemonte è il più emblematico «con il dato ufficiale di Arpa Piemonte che conferma un’anomalia delle piogge fino all’85 per cento in meno (rispetto al precedente anno idrologico, ndr) esclusa l’area del cuneese, dove qualche nevicata ha ristorato leggermente il comprensorio».
Che fine fa?
Ma allora che fine fa tutta questa acqua? «L’acqua è il grande rimosso dell’Italia», spiega Erasmo D'Angelis, presidente della fondazione Earth water agenda. «Gli investimenti fatti dal nostro paese sulle grandi infrastrutture idriche sono quelli che vanno dal Dopoguerra agli anni Sessanta».
Dei 300 miliardi di metri cubi che piovono ogni anno, ne possiamo prelevare circa 168, il restante si disperde nel ciclo idrico, mantenendo in salute i sistemi fluviali, le falde e i bacini idrici. Dell’acqua prelevabile, ne utilizziamo circa 34 miliardi di metri cubi «numeri che ci consentirebbero la massima sicurezza idrica, se non ci fossero perdite elevate», continua D’Angelis.
Infatti, di tutta l’acqua prelevata, poco meno della metà viene sprecata, a causa di infrastrutture obsolete e che non tengono conto del fatto che negli anni la domanda sia aumentata, mentre le condizioni climatiche sono cambiante piuttosto rapidamente, soprattutto nell'ultimo decennio. Secondo le ultime statistiche Istat sull’acqua nel 2020, rispetto al 2018, le perdite in distribuzione si attestavano su valori vicini al 42 per cento, quantità di acqua che «continua a rappresentare un volume cospicuo, quantificabile in 157 litri al giorno per abitante», scrive l’istituto di statistica. «Stimando un consumo pro capite pari alla media nazionale, il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno».
Manca una visione a lungo termine
Sono infatti bastati due anni di siccità prolungata e duratura perché ci si rendesse conto di quanto si dia per scontata una risorsa considerata probabilmente infinita, dovuta. La verità è che «analizzando la spesa pubblica degli ultimi 25 anni, dalla legge Galli del 1994, lo stato in media ha finanziato il settore idrico con investimenti che vanno dall’uno al due per cento della spesa pubblica», conferma D’Angelis.
La stessa mancanza di visione e pianificazione si vede anche nei finanziamenti previsti dal Pnrr, ovvero 4 miliardi e 400 milioni, rispetto agli oltre 200 miliardi messi a disposizione. «Sostanzialmente nulla».
Ciò che manca al nostro paese è anche la capacità di immagazzinamento. Teoricamente le oltre 530 grandi dighe italiane avrebbero la possibilità di conservare oltre 13 miliardi di metri cubi, ma i volumi invasati oggi sono solo 8 miliardi. «Questo dipende dal fatto che abbiamo decine di dighe in collaudo, in invaso limitato o fuori esercizio temporaneo, o semplicemente mai completate», spiega D’Angelis. In mezzo secolo si è aumentata la capacità solo dell’un per cento. Secondo l’esperto avremmo bisogno di almeno altri duemila piccoli invasi, «trattenere solo il 4 per cento della pioggia è piuttosto assurdo».
L’acqua in bottiglia
C’è poi un altro grande paradosso tutto italiano. Mentre nelle parte occidentale piemontese sono almeno 19 i comuni con il massimo livello di severità idrica, cioè con criticità su parte significativa dell’abitato, e che stanno facendo fronte all’emergenza con il riempimento del serbatoio integrato con autobotti, i prelievi nazionali di acque minerali per la produzione sono in costante aumento e hanno raggiunto quasi 19,8 milioni di metri cubi nel 2020 (+3,6 per cento rispetto al 2019), con un tasso medio annuo di crescita di poco più del 4 per cento.
Cosa ancora più controversa, le estrazioni si concentrerebbero per oltre la metà del totale nazionale proprio al nord: in testa la Lombardia con circa 3,6 milioni di metri cubi prelevati, seguita dal Piemonte (3,3), regioni che insieme contano il 34,8 per cento dei prelievi nazionali. L’indicatore di estrazione, dato dal rapporto fra i volumi estratti e la relativa superficie territoriale, registra il valore più alto proprio per l’area nord ovest (125 metri cubi/km2), pari quasi al doppio di quello nazionale. «Una famiglia media spende circa 176 euro di bolletta dell’acqua, mentre circa 140 per quella minerale», conclude D’Angelis. Un paradosso tutto italiano che, in epoca di carenza idrica, pone più di un interrogativo.
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