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Le forze armate sono i maggiori consumatori di energia tra le agenzie governative e contribuiscono in maniera significativa alle emissioni di gas serra nell’atmosfera.
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La Difesa però non è tenuta a diffondere i dati sulla sua produzione di CO2 e l’Accordo di Parigi lascia il taglio delle emissioni militari alla discrezionalità dei singoli paesi.
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Secondo un primo studio a livello europeo, nel 2019 l’impronta di carbonio derivante dalle spese del settore della Difesa in Europa è stata di 24,8 milioni di tonnellate di CO2.
I grandi della Terra si sono riuniti a Glasgow, in Scozia, per discutere di cambiamento climatico e lotta alle emissioni, ma hanno dimenticato di inserire in agenda un capitolo particolarmente ingombrante: quello della Difesa.
Le forze armate sono i maggiori consumatori di energia tra le agenzie governative e contribuiscono in maniera significativa alle emissioni di gas serra nell’atmosfera, oltre ad avere in generale un impatto ambientale negativo.
Attività belliche tipiche dei conflitti armati danneggiano a diversi livelli l’ambiente sui cui intervengono: inquinano il suolo e le falde acquifere, distruggono territori ed infrastrutture, fino a rendere in alcuni casi impossibile la vita in determinate aree. A ciò si aggiunge l’inquinamento provocato dai residuati bellici e dal loro smaltimento, particolarmente dannoso per l’ambiente, ma anche quello derivante dall’addestramento e dallo spostamento di truppe sul territorio nazionale e all’estero. Senza contare il consumo di suolo delle basi militari.
Come affermato anche dall’International military council on climate and security (Imccs), la difesa continua ad essere il più grande consumatore di idrocarburi al mondo anche a causa della lunga durata di vita delle attrezzature militari. Da qui la necessità, secondo l’Imccs di investire sempre di più nella ricerca e nello sviluppo di sistemi alternativi che riducano le emissioni prodotte dai veicoli utilizzati dall’esercito.
Le emissioni in Ue
Riuscire a valutare correttamente la quantità di gas serra prodotta delle forze armate è però difficile. I paesi firmatari della Convenzione quadro dell’Onu sul cambiamento climatico sono obbligati a pubblicare ogni anno i dati sulle emissioni, ma la direttiva non si applica al settore della Difesa.
Nella maggior parte dei casi, i paesi preferiscono non rendere note le informazioni sull’impatto ambientale delle proprie forze armate per una questione di sicurezza nazionale, limitandosi a comunicazioni parziali. D’altronde lo stesso Accordo di Parigi del 2015 non prevede obblighi specifici per la Difesa, il cui taglio delle emissioni viene lasciato alla discrezionalità dei singoli paesi.
Nel 2020 il Gruppo della sinistra al Parlamento europeo (GUE/NGL) ha cercato di far luce sull’impatto ambientale delle forze armate comunitarie e delle aziende della Difesa, commissionando al Conflict and environment observatory (Ceobs) e al Scientists for global responsibility (Sgr) un’analisi dell’impronta di carbonio del settore militare dell’Unione. Le conclusioni delle due associazioni sono contenute nel report “Under the radar: The carbon footprint of the EU’s military sectors”, che prende in esame le spese militari dei paesi comunitari, i dati sulle emissioni di gas serra delle forze armate e delle maggiori aziende europee attive nella produzione di armamenti. Lo studio si concentra sui sei Stati membri che investono di più in Difesa e sulle loro industrie belliche. Parliamo di Italia, Francia, Germania, Spagna, Olanda e Polonia.
Secondo le due associazioni, che hanno lavorato sulla base dei dati governativi resi disponibili al pubblico, nel 2019 l’impronta di carbonio derivante dalle spese del settore della Difesa in Europa è stata di 24,8 milioni di tonnellate di CO2.
Un dato che equivale all’anidride carbonica prodotta in un anno dal 14 milioni di macchine e che comprende sia le attività militari dirette, sia l’impatto dell’industria bellica che delle catene di approvvigionamento. Il dato però è probabilmente al ribasso a causa della mancanza di report completi, soprattutto per quanto riguarda le forze armate polacche. A contribuire maggiormente all’impronta di carbone dell’Ue è invece la Francia.
Le industrie della Difesa
Le forze armate non sono le uniche responsabili della produzione di gas serra nel settore della Difesa. Anche le industrie belliche contribuiscono all’impronta di carbone dei paesi dell’Ue, ma i dati sulle emissioni da loro prodotte sono spesso incompleti e non permettono quindi di valutarne correttamente l’impatto ambientale.
Tuttavia, secondo l’analisi condotta da Ceobs e Sgr e riportata anche dal Transnational institute, le aziende europee che producono più emissioni sono Pgz, Airbus, Leonardo, Rheinmetall e Thales. Insieme queste cinque compagnie hanno prodotto almeno 1,02 milioni di tonnellate di gas serra nel 2019.
Altre aziende ugualmente importanti del settore della Difesa come Mbda, Hensoldt, Kmw, e Nexter non hanno mai reso disponibili i dettagli riguardanti le loro emissioni, per cui il dato è ancora una volta al ribasso. Sulla base delle informazioni disponibili, il report identifica l’industria militare polacca come la maggior produttrice di gas serra a causa del massiccio impiego di carbone quale fonte di energia.
L’Italia
Difficili da reperire sono anche i dati relativi alle forze armate italiane. Le uniche informazioni per il 2018 sono quelle relative al comparto mobile, mentre non si fa menzione dei gas serra prodotti dalle basi militari.
Ipotizzando che i due valori siano equivalenti e aggiungendo le emissioni indirette, il report stima che l’impronta di carbone delle forze armate italiane nel periodo 2018/19 si aggiri intorno ai 2.1 milioni di tonnellate di CO2. Ma a pesare sulla quantità di anidride carbonica prodotta dal settore militare sono anche le aziende belliche. Tra le cinque maggiori industrie analizzate dal report e attive in Italia (Leonardo, Fincantieri, Thales, e Northrop Grumman) solo Fincantieri ha reso note le informazioni sulle sue emissioni. Sulla base dei dati disponibili, tuttavia, l’azienda che produce più CO2 risulta essere Leonardo, mentre l’insieme delle industrie della Difesa produce orientativamente più di 2.6 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Il recente aumento della spesa militare italiana non lascia ben sperare in quanto ad abbattimento delle emissioni nel prossimo futuro. Secondo i dati preliminari dell’Osservatorio Mil€x, l’Italia ha investito 24,97 miliardi di euro nel 2021 nella Difesa, registrando un aumento dell’8,1 percento rispetto al 2020 e del 15,7 percento rispetto al 2019. Un dato che rischia di coincidere con un incremento della produzione di CO2 e che riflette anche una contraddizione nella posizione assunta dalla Nato nei confronti dei cambiamenti climatici.
L’Alleanza atlantica si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra di attività ed installazioni militari, pur senza compromettere la sicurezza del personale né la propria efficacia operativa, e a valutare la fattibilità di raggiungere le emissioni net zero entro il 2050. Ad oggi però questi impegni non hanno trovato un riscontro effettivo e risultano difficilmente compatibili con la richiesta fatta ai paesi membri di aumentare fino al 2 percento le spese militari.
Cosa fare
A proporre delle soluzioni per limitare la produzione di gas serra del comparto militare è la Rete pace e disarmo, secondo cui è prima di tutto necessario fissare degli obiettivi di riduzione delle emissioni coerenti con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Fondamentale è anche la comunicazione dei dati relativi alla produzione di gas serra e l’implementazione di pratiche che portino alla riduzione della dipendenza dai combustibili fossili, da sostituire con fonti rinnovabili.
Le forze armate dovrebbero anche impegnarsi a incorporare valutazioni climatiche e ambientali nel processo decisionale relativo agli acquisti, così come alle attività e alle missioni belliche. Queste ultime hanno un impatto significativo e dovrebbero quindi essere riviste mettendo al primo posto la tutela dell’ambiente. Perché ciò sia possibile è importante aumentare la formazione climatica e ambientale del personale con ruoli decisionali, anche in relazione alla semplice gestione delle strutture delle forze armate, che fanno ancora poco affidamento su fonti di energia rinnovabile.
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