Le eruzioni vulcaniche nell’ovest del paese mettono a rischio non solo la città di Grindavik, ma anche un’importante centrale geotermica e la famosissima Blue Lagoon
Da alcuni mesi a questa parte la penisola di Reykjanes nel sud-ovest dell’Islanda è martoriata da una serie di eruzioni vulcaniche che mettono in pericolo la città di Grindavik, oltre a una importante centrale geotermica e alla famosa Blue Lagoon, attrazione turistica di punta per islandesi e turisti.
Dal 2021, in quell’area, vi sono state almeno sei eruzioni, durate da pochi giorni ad alcune settimane. I vulcanologi hanno messo in guardia chi vive nei paraggi che questo potrebbe essere solo l’inizio di un periodo di attività vulcanica che potrebbe durare decenni o addirittura secoli. E allora cosa sta succedendo in quella meravigliosa isola, plasmata proprio dalle eruzioni vulcaniche?
Il punto caldo
È noto che l’Islanda è uno dei luoghi più attivi al mondo dal punto di vista vulcanico. La grande isola infatti, è posizionata sopra un “punto caldo” geologico, dove pennacchi di materiale arrivano dalle profondità della Terra verso la superficie.
Di luoghi come questi ve ne sono circa un centinaio sulla Terra, alcuni dormienti, altri attivi, come le Hawaii e l’Islanda per l’appunto. Ma quest’isola si trova anche al confine tra le placche tettoniche eurasiatica e nordamericana.
Queste zolle si stanno allontanando molto lentamente l’una dall’altra, alla velocità di qualche centimetro all’anno, ma ciò crea uno “spazio” da dove magma molto caldo che si forma nel mantello terrestre può fluire verso l’alto e arrivare in superficie.
Questo fenomeno geologico produce sfoghi di magmi che possono variare posizione nel tempo e per i tempi umani possono anche fermarsi per periodi lunghi, come secoli o millenni, che in termini geologici però, sono come il battere delle ciglia per una vita umana. Attualmente sull’isola vi sono più di 100 centri vulcanici e più di 30 sono attivi, anche se magari, in questo preciso momento, sono dormienti.
L’ultima volta che la penisola di Reykjanes ha visto un flusso di lava di una certa importanza risale ormai a centinaia di anni fa: potrebbe essere iniziato già a metà VIII secolo o nel secolo successivo ed è continuato fino al 1240. Da allora le bocche si sono chiuse, e ora a 800 anni di distanza le eruzioni sono ricominciate.
Ma perché questo lungo intervallo di 800 anni senza eruzioni? «Nel corso del tempo geologico, le placche tettoniche si stanno separando alla velocità con cui crescono le unghie, quindi pochi centimetri all’anno», spiega il professor Tamsin Mather, scienziato della Terra dell’università di Oxford.
«Ma il fenomeno non avviene con regolarità e continuità, vi sono infatti momenti di attività più elevata e altri in cui tutto sembra addormentarsi. Un risveglio è, probabilmente, ciò che stiamo vivendo proprio ora a Reykjanes».
Datando le rocce effuse nel passato i vulcanologi hanno potuto determinare che esiste un’alternanza di periodi di quiete che durano mediamente circa 1.000 anni, seguiti da eruzioni che continuano per alcuni secoli.
«Ci sono prove di circa tre di questi tipi di episodi avvenuti negli ultimi 4.000 anni in quest’area», spiega Mather. «Quindi tutto sta procedendo come previsto al momento. Ci aspettiamo una serie di queste eruzioni nei prossimi anni e decenni».
È importante capire come prevedere quando avverranno le singole eruzioni. È questa infatti una delle principali preoccupazioni per l’Islanda in questo momento, soprattutto perché la città di Grindavik e la centrale geotermica lì vicino – un elemento chiave dell’infrastruttura nazionale – si trovano nella zona di pericolo.
«Ora gli scienziati si sono fatti un’idea migliore di come si ripetono le eruzioni nel corso del tempo», spiega Evgenia Ilyinskaya, vulcanologa dell’università di Leeds.
«La strada che dà migliori risultati consiste nel monitorare il modo con cui il terreno si gonfia mentre il magma sale dal profondo. Questo permette di prevedere con maggiore certezza rispetto al passato quando aspettarsi che il magma inizi a sfondare il terreno».
Ma individuare esattamente il punto dove avverrà un’eruzione è più difficile. In Islanda non si formano vulcani a forma di cono come lo è l’Etna, ad esempio, dove la lava esce più o meno dallo stesso punto.
Nella penisola di Reykjanes, il magma è contenuto in una grande camera magmatica che fuoriesce attraverso fessure, che possono essere lunghe anche chilometri, ma che si aprono qua e là dove il magma trova minore resistenza. Gli islandesi stanno costruendo grandi barriere attorno alla città e alla centrale elettrica, che sembrano essere efficaci per evitare che la lava entri nelle aree abitate o industriali.
È anche difficile tuttavia avere un’idea precisa della pressione che le lave possono esercitare su tali barriere, e a volte possono cedere. È quel che è successo a gennaio quando la lava è riuscita ad aprirsi una breccia e a distruggere alcune case. Per fortuna poi il flusso lavico andò scemando e il resto della cittadina venne risparmiato.
Gli scenari
Se l’eruzione in corso durerà decenni o secoli, cosa può significare per l’Islanda? In tal caso le eruzioni avranno conseguenze di non secondaria importanza.
Spiega Ilyinskaya: «Questa è la parte più densamente popolata dell’Islanda, tant’è che il 70 per cento della popolazione vive entro un raggio di circa 40 chilometri. E tutte le infrastrutture chiave sono lì, a partire dal principale aeroporto internazionale, dalle grandi centrali geotermiche e anche da molte infrastrutture turistiche, che rappresentano una parte importante dell’economia islandese».
Le eruzioni fin qui avvenute hanno più volte interrotto le poche strade extraurbane esistenti, e questo causa seri problemi alla circolazione. Vi è poi il problema dell’inquinamento atmosferico causato dai gas emessi durante le eruzioni. «Anche la capitale del paese, Reykjavik, potrebbe essere interessata dal fenomeno attuale», afferma Ilyinskaya.
Ma esiste un modo per prevedere cosa accadrà a lungo termine? I geologi stanno esaminando una serie di diversi sistemi vulcanici che si trovano in tutta la penisola.
«Nell’ultimo ciclo, le prime eruzioni iniziarono nei sistemi a est e migrarono verso ovest», spiega Dave McGarvie della Lancaster University. «Questa volta, le prime eruzioni, iniziate nel 2021, sono avvenute in un sistema che si trova verso il centro della penisola.
Quel sistema ora sembra essersi completamente spento: non c’è alcuna indicazione di un nuovo accumulo di magma al di sotto di esso. Ma non è chiaro se ciò sia temporaneo o permanente». Le eruzioni più recenti, quelle iniziate a dicembre, si trovano ora in un sistema un po’ più a ovest.
Ma stando a McGarvie ci si può fare solo un’idea di quanto magma vi è realmente vicino alla superficie ed è difficile prevedere se si sposterà da Grindavik e dalla centrale elettrica verso un’altra area eruttiva o se si intensificherà nel medesimo luogo.
Al momento gli occhi dei vulcanologi sono fissi sui tremori che giungono dal sottosuolo per cercare di capire se una nuova eruzione è imminente e in tal caso dare l’allarme per tempo al fine di sgomberare tutte le aree che entrano in zona rossa di pericolo.
L’immenso oceano di Mimas
È ancora la sonda Cassini, che terminò l’esplorazione di Saturno e delle sue lune nel 2017, a regalarci una scoperta di grande interesse. Stando alla rielaborazione di misurazioni ravvicinate della sonda alla luna chiamata Mimas, sembra che questa possieda un vasto oceano che ricopre l’intero satellite naturale, sotto il suo guscio ghiacciato.
La scoperta farebbe entrare la luna nel numero di corpi del sistema solare che potrebbero ospitare la vita. Mimas è la più piccola delle sette lune principali di Saturno e per molto tempo si è pensato che fosse composta principalmente da ghiaccio solido e roccia. Nel 2014 però gli astronomi osservarono che la sua orbita attorno a Saturno non era perfetta, ma sembrava oscillare.
Ciò inizialmente venne spiegato ipotizzando che Mimas potesse avere un nucleo a forma di palla da rugby. Ma subito dopo si avanzò anche l’ipotesi che la luna fosse ricoperta, al di sotto di una crosta ghiacciata, da un oceano liquido.
Questa ipotesi però trovò in disaccordo numerosi astronomi, perché – dicevano – l’attrito necessario per fondere il ghiaccio avrebbe dovuto produrre segni visibili anche sulla superficie di Mimas. Ossia ci sarebbero dovute essere delle fratture o delle catene montuose di ghiaccio. E ciò non si vedeva.
Nel 2022 tuttavia alcune simulazioni al computer suggerirono che un oceano sotterraneo sarebbe potuto esistere anche senza evidenze superficiali. Da qui lo studio di Valéry Lainey dell’Osservatorio di Parigi, in Francia e dei suoi colleghi, pubblicato sulla rivista Nature, i quali hanno analizzato le osservazioni dell’orbita di Mimas effettuate dalla navicella spaziale Cassini della Nasa.
«Con sorpresa abbiamo scoperto che la sua orbita attorno a Saturno si è spostata di circa 10 chilometri in 13 anni», ha detto Lainey. Secondo i calcoli dei ricercatori questa deriva orbitale potrebbe essere stata prodotta solo dalle oscillazioni di un guscio ghiacciato che si muove scivolando al di sopra di un oceano liquido.
E quest’ultimo potrebbe avere uno spessore compreso tra i 20 e i 30 chilometri. Un fatto interessante è che l’oceano sembra essere molto giovane. Il movimento di Mimas e l’assenza di segni di un oceano sulla sua superficie suggeriscono che l’oceano abbia meno di 25 milioni di anni e che l’interfaccia ghiaccio-oceano abbia raggiunto una profondità inferiore a 30 chilometri in soli 2-3 milioni di anni.
La scoperta porta Mimas a unirsi alla lista di lune del Sistema Solare che ospitano oceani liquidi, tra cui un’altra luna di Saturno, Encelado, le lune Europa, Callisto e Ganimede che orbitano attorno a Giove e alcune lune di Urano.
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