- Perché ci si concentra così tanto sulle azioni individuali? Perché si parla di impronta di carbonio? Perché si evidenzia così tanto la responsabilità dell’individuo, del singolo, del consumatore?
- È stata per decenni la strategia di alcune aziende che ingaggiavano esperti di comunicazione al fine di creare campagne pubblicitarie che avevano l’obiettivo di distogliere dalla responsabilità delle industrie in termini di emissioni e inquinamento.
- La realtà è che i concetti che ruotano attorno al mito della responsabilità individuale sono utilizzati dal settore fossile per manipolare il pubblico ed evitare le regolamentazioni delle politiche climatiche e di protezione ambientale.
Vi chiedete mai se state facendo abbastanza per “salvare il pianeta”? Quante volte avete prestato attenzione a quello che comprate, mangiate, e fate ogni giorno? Quante volte lo avete considerato in termini di emissioni? Quante volte, nonostante questo, avete provato una sensazione di impotenza?
A monte, c’è una premessa. Una premessa che, spesso, viene ignorata e che, invece, è fondamentale per comprendere due cose: perché ci sentiamo impotenti anche se ce la mettiamo tutta per avere uno stile di vita sostenibile, e qual è una delle narrazioni più ingannevoli sulla crisi climatica. In altre parole, perché ci si concentra così tanto sulle azioni individuali? Perché si parla di impronta di carbonio? Perché si evidenzia così tanto la responsabilità dell’individuo, del singolo, del consumatore?
L’impronta di carbonio
Non è un caso che la dinamica sia questa. Al contrario, si tratta di una strategia mirata. E lo è stata per decenni, già a partire dagli anni Settanta, quando alcune aziende ingaggiavano esperti di comunicazione al fine di creare campagne pubblicitarie che avevano l’obiettivo di distogliere dalla responsabilità delle industrie in termini di emissioni e inquinamento.
Anche il concetto di impronta di carbonio è stato promosso da una compagnia di combustibili fossili per deviare l’attenzione dalla responsabilità del settore e reindirizzarla sull’individuo. La compagnia è la Bp. E ha messo in campo un’idea geniale: un calcolatore per misurare l’impronta di carbonio individuale. Quanto pesano in termini di emissioni le attività quotidiane di un individuo? Se le persone si sentono in colpa per il cambiamento climatico e sono concentrate ad agire quotidianamente in maniera sostenibile, è molto più semplice per i responsabili – le compagnie fossili – continuare ad agire indisturbate e continuare con il loro business as usual.
La Bp ha presentato il carbon footprint calculator nel 2004. È stata un’idea vincente perché nell’arco di qualche anno il concetto di “impronta di carbonio” è diventato un tormentone mediatico. Molte testate, spesso anche in buona fede, parlano ancora di cose come “i dieci passi” per ridurre l’impronta di carbonio individuale oppure di consigli quotidiani per “limitare la propria impronta di carbonio”. In effetti, è stata un’idea talmente efficace che oggi l’abbiamo interiorizzata a tal punto da non metterla più in discussione, non ci chiediamo da dove venga e cosa significhi.
Da soli non bastiamo
Secondo Benjamin Franta, storico della scienza e ricercatore, «questa è una delle campagne di pubbliche relazioni ingannevoli di maggior successo». Infatti, la realtà è che i concetti che ruotano attorno al mito della responsabilità individuale, come quello dell’impronta di carbonio, sono utilizzati dal settore fossile – non solo dalla Bp – per manipolare il pubblico ed evitare le regolamentazioni delle politiche climatiche e di protezione ambientale.
È chiaro che questo non significa che le azioni individuali non siano importanti o necessarie. Solo che non sono sufficienti. E che mentre siamo concentrati a pensare a quanta carne mangiamo o quante volte prendiamo la bici invece dell’automobile, il settore fossile continua ad emettere e ad inquinare.
E, soprattutto, continua a nascondere il proprio impatto. In altre parole, il problema va risolto a livello politico, sociale, economico e culturale, non individuale. Rebecca Solnit sul Guardian la spiega così: “Il caos climatico richiede di riconoscere come tutto sia collegato. Vedersi come cittadini significa vedersi come connessi ai sistemi sociali e politici. Come cittadini dobbiamo perseguire l’impronta climatica delle corporazioni dei combustibili fossili, l’industria della carne, le compagnie energetiche, il sistema dei trasporti, la plastica e molto altro”. Come cittadini e consumatori, quindi, possiamo fare molto. Ma non possiamo farlo senza prima comprendere cosa è accaduto e come.
Solo nel 2004, 278mila persone hanno misurato la loro impronta attraverso il calcolatore della Bp su un sito creato appositamente per una campagna pubblicitaria nella quale la compagnia ha investito almeno 200 milioni di dollari. Era una trovata pubblicitaria che aveva il fine di un rebranding per l’azienda: British Petroleum diventava Beyond Petroleum, “oltre il petrolio”. Solo che, nella realtà, la Bp non è mai andata davvero oltre il petrolio.
Petrolio e greenwashing
La Bp produce ancora milioni di barili ogni anno. Nel 2019, la compagnia ha acquistato nuove riserve di petrolio e gas nel Texas occidentale. E anche se, negli ultimi anni, vanta di aver cambiato rotta verso i combustibili a basso contenuto di carbonio, nel 2018, per esempio, ha investito solo il 2,3 per cento del suo budget in energie rinnovabili. Bp non è oltre il petrolio, Bp è il petrolio.
Il problema, comunque, non è solo che, come tutte le aziende di combustibili fossili, emette e inquina, ma anche che agisce per nasconderlo e per ostacolare la regolamentazione del settore fossile. Secondo Greenpeace Uk, Bp spende 30 milioni di dollari all’anno in pubblicità ingannevole. In altre parole, spende 30 milioni di dollari all’anno nel greenwashing.
Nel 2019 l’associazione ClientEarth ha presentato un’azione legale contro la pubblicità della Bp “Possibilities Everywhere”, affermando che “ha indotto la gente a pensare che la Bp sia un’azienda di energie rinnovabili, quando il 96 per cento della spesa della società è per petrolio e gas”.
Ma, anche in questo caso, il problema non è solo la pubblicità ingannevole. Secondo Greenpeace Uk, infatti, la compagnia spende più di 50 milioni di dollari all’anno in attività di lobbying per ostacolare politiche per affrontare l’emergenza climatica. Durante l’amministrazione Trump, per esempio, Greenpeace ha scoperto che la Bp ha fatto pressioni per evitare le regolamentazioni governative sulla riduzione di emissioni di metano, 34 volte più dannoso per il clima rispetto al biossido di carbonio.
Minimizzare i rischi
Come chi segue questa serie dal primo episodio sa, il lobbying delle compagnie petrolifere come la Bp è uno dei motivi principali per cui i governi di tutto il mondo per decenni non hanno regolamentato le emissioni del settore fossile. E così come altre compagnie, tra cui Exxon e Shell, Bp conosceva i rischi della propria attività sul clima e sugli ecosistemi.
Nel 1997 la compagnia ha riconosciuto pubblicamente la realtà del cambiamento climatico in un discorso dell’ex amministratore delegato John Browne.
Ma un documentario della Bp mostra che la compagnia sapeva delle cause e degli effetti del cambiamento climatico già nel 1990, sette anni prima del discorso di Browne. Nel filmato la Bp spiega l’effetto serra e evidenzia che la combustione di carburanti fossili contribuisce all’aumento della temperatura globale. Descrive anche varie “conseguenze devastanti” di un clima alterato come “inondazioni catastrofiche”. Pur sapendo della minaccia del cambiamento climatico trent’anni fa, quindi, la Bp ha minimizzato i rischi e ha agito per impedire un controllo sulle emissioni.
Le lobby
Per la maggior parte degli anni Novanta, la compagnia ha fatto lobbying attraverso la Global Climate Coalition (Gcc), gruppo industriale creato e finanziato da interessi fossili per ostacolare l’azione sul clima attraverso una campagna negazionista molto aggressiva.
Gli sforzi della Gcc sono stati più che efficaci. Poco prima del suo scioglimento nel 2001, un alto funzionario del dipartimento di Stato scrisse che il presidente George W. Bush aveva deciso di ritirarsi dal protocollo di Kyoto “in parte sulla base dei contributi [del Gcc]”.
Per quasi due decenni dopo la sua uscita dal Gcc, poi, la Bp ha fatto parte dell’American Legislative Exchange Council (Alec), un’organizzazione americana fondata al fine di favorire il business delle aziende a livello politico. Nel 1999, ALEC aveva bloccato la legislazione per ridurre i gas serra in 16 stati americani. La Bp si è separata dal gruppo nel 2015.
Nello stesso anno, il Guardian riferisce che la Bp ha finanziato Jim Inhofe, un senatore repubblicano dell’Oklahoma e noto negazionista climatico che ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari dal settore fossile. Inhofe è conosciuto per aver portato una palla di neve in Senato a riprova del fatto che «fa molto freddo fuori» e, per questo, il riscaldamento globale non può esistere.
Una transizione difficile
Nei tre anni successivi, poi, la Bp ha fatto pressione sul governo statunitense per ridurre le regolamentazioni sul metano e l’inquinante pratica di gas flaring, tra le altre. Nel 2017 sotto Trump, la Bp, insieme ad altri gruppi, ha fatto pressione per aprire l’Alaska alle perforazioni di petrolio e gas. Come Exxon e Shell, poi, anche la Bp fa parte dell’American Petroleum Institute (Api), la più grande associazione commerciale americana per l’industria del petrolio e del gas che ha speso oltre 98 milioni di dollari in attività di lobbying dal 1998.
Compagnie europee come Bp e Shell si stanno muovendo meno lentamente verso investimenti in attività di energia pulita rispetto alle statunitensi come Exxon e Chevron, ma il problema è che il core business resta ancora radicato nel fossile. Durante l’udienza sul ruolo di Big Oil nella campagna di disinformazione sul clima il 28 ottobre 2021 al Congresso americano, il ceodi Bp America, David Lawler, ha dichiarato che la compagnia, pur avendo avviato la transizione, non lascerà il petrolio e il gas.
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