L’ambiente è una vittima silenziosa della guerra. Le immagini dall’Ucraina o dal Sudan ci ricordano che i conflitti non distruggono solo il tessuto sociale ed economico di un paese, ma anche il suo ecosistema, compromettendone così lo sviluppo e la ricostruzione in tempi di pace. La comunità internazionale ne è consapevole da tempo ed è per questo che la protezione ambientale durante i conflitti armati è tutelata direttamente e indirettamente da diversi trattati internazionali.

Già nel 1977, la Convenzione di Ginevra fu aggiornata con un protocollo che proibisce l’utilizzo dell’ambiente come obiettivo militare.

Da una prospettiva inversa invece, è più recente l’idea che lo stesso cambiamento climatico può indirettamente provocare tensioni che possono sfociare in conflitti. Un esempio emblematico, per chi conosce l’Africa, è il problema della transumanza.

Dal Corno d’Africa al Sahel, la riduzione delle terre fertili, l’aumento della popolazione e il prosciugamento frequente dei bacini idrici hanno accentuato i conflitti, sia a livello nazionale che transnazionale, tra pastori e agricoltori.

Queste dinamiche mostrano chiaramente quanto conflitti e cambiamenti ambientali siano strettamente legati, e sottolineano la necessità di adottare approcci sempre più integrati per affrontare queste sfide.

Le mine letali

Nonostante la questione climatica sia ormai al centro dei dibattiti sui conflitti, sorprende però la quasi totale assenza di attenzione verso una delle minacce più pericolose alla pace: le mine. Riprendendo le parole di Jody Williams, premio Nobel per la pace, le mine non distinguono un bambino da un soldato e non sanno quando una guerra è finita: una volta a terra «sono eternamente pronte a fare vittime».

Non solo: la loro presunta o confermata presenza priva le comunità dell’accesso a terre e risorse naturali. Una volta che esplodono, la produttività agricola del suolo è compromessa. E le attività di sminamento hanno un costo ambientale altissimo. In Vietnam, dopo la guerra, si era registrata una riduzione del 50 per cento nella produzione di riso per ettaro nelle terre contaminate.

Tutto ciò va ricordato perché purtroppo, come sostiene l’ultimo rapporto della Croce rossa internazionale, ancora oggi le mine rappresentano una delle maggiori sfide all’applicazione del diritto umanitario internazionale.

Secondo il Land Monitor, le mine – e in particolare le munizioni a grappolo – vengono regolarmente utilizzate da gruppi armati statali e non-statali in Colombia, India, Myanmar, Ucraina e nel Sahel.

Nel 2022 almeno 4.710 persone sono state uccise o ferite da mine e residui bellici esplosivi. Tra questi, l’85 per cento erano civili di cui la metà bambini. Mentre in Ucraina, come sostiene il rapporto, la Russia ha ampiamente utilizzato mine e ordigni esplosivi sin dall’inizio dell’invasione, la situazione in Africa è anche particolarmente allarmante, non solo per l’utilizzo delle mine, ma anche per il contesto in cui ciò accade.

Oggi il continente affronta sfide significative legate al cambiamento climatico, a una crescita demografica esponenziale, a crisi di governance e a emergenze umanitarie.

Ma a rendere il quadro ancora più preoccupante è l’attenzione limitata che i grandi paesi donatori riservano al continente.

Diffusione fuori controllo

Dal 2014 a oggi, secondo Small Arms Survey, la diffusione di ordigni esplosivi improvvisati in Africa occidentale sarebbe «fuori controllo». Si tratta di mine artigianali o, come sostiene il rapporto del centro di ricerca, di mine anti carro per lo più di origine belga che giacevano in depositi libici.

Con la caduta di Gheddafi sarebbero poi passate di mano in mano, fino ad arrivare nella Repubblica Centrafricana, a migliaia di chilometri di distanza. Purtroppo però i finanziamenti per rispondere a questo fenomeno sono per il momento del tutto inadeguati.

Sempre secondo Land Monitor, nel 2022 i finanziamenti destinati all’azione contro le mine costituivano lo 0,4 per cento del totale dell’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) a livello mondiale. E questo è ancora più preoccupante se si considera che quell’anno i finanziamenti avevano registrato un aumento del 52 per cento, equivalenti a 314,5 milioni di dollari rispetto al 2021.

Tuttavia, è fondamentale sottolineare che la maggior parte di questi fondi è stata indirizzata all’Ucraina, grazie all’ampio sostegno finanziario fornito da Stati Uniti e Unione europea. Paesi come Iraq e Afghanistan hanno invece ricevuto somme inferiori rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2022, anche in Africa si è registrato spesso un aumento di finanziamenti (come in Etiopia, Mali o Niger), ma perché la cifra iniziale era praticamente pari allo zero. Basta fare un confronto: se l’Ucraina ha ricevuto 162 milioni di dollari, l’Iraq 89, l’Afghanistan 66 e lo Yemen 64, il Mali ne ha ricevuti 2, il Burkina 2,5, il Niger poco più di 1 e il Ciad meno di 1.

© Riproduzione riservata