In Europa si sta allargando la distanza tra il problema climatico e la nostra preparazione: sociale, economica, infrastrutturale. È il messaggio chiave del nuovo European climate risk assessment dell'Agenzia europea dell'ambiente
In Europa si sta allargando la forbice tra il problema climatico e la nostra preparazione sociale, economica, infrastrutturale. Questo è il messaggio chiave del nuovo European climate risk assessment dell'Agenzia europea dell'ambiente, un organismo scientifico indipendente dell'Unione europea. Insomma: la voce degli scienziati europei.
Da un lato il riscaldamento globale ha accelerato, da mesi. Se fosse un film, la crisi climatica avrebbe già stufato, la sequenza ininterrotta di record di temperature di oceani e atmosfera in cui ci troviamo non è nemmeno più buona narrazione, troppo costante.
Dall'altro, l'Europa è indietro come preparazione ai nuovi scenari. E non possiamo permettercelo perché, come ricorda lo studio, «l'Europa è il continente che dagli anni '80 si scalda più velocemente al mondo: il doppio della media media globale».
È per questo che la valutazione di rischio degli scienziati europei è così dura: i costi dell'impreparazione sarebbero insostenibili, anche per i problemi che a oggi non si sono ancora pienamente manifestati, come l'innalzamento del livello del mare e le inondazioni costiere, che all'Unione costeranno mille miliardi di dollari all'anno.
Come avere un Covid ogni anno, «ma per secoli, per millenni», avvertono gli scienziati, «perché l'innalzamento sarà lento, ma inesorabile». Sono proiezioni che hanno entro la fine di questo secolo come scadenza, ma gli scienziati avvertono che le riforme di adattamento hanno tempi lunghi: quello che faremo, o inizieremo a fare, nella finestra di tempo in cui ci troviamo, avrà conseguenze per decenni. Proprio come l'urgenza della campagna di vaccinazione nel 2021 ci ha permesso di progettare la ripresa economica negli anni successivi.
Questa valutazione di rischio è inevitabilmente anche un atto da campagna elettorale per le prossime elezioni europee: il contenuto è scienza, ma il tempismo è politica. La pubblicazione a tre mesi dal voto di giugno è un modo per ribadire pubblicamente che generazioni di europei si troveranno a giudicare quello che faranno i prossimi eletti. I ricercatori hanno categorizzato i problemi climatici del continente in cinque aree tematiche (ecosistemi, cibo, salute, infrastrutture, economia) e in 36 rischi.
«Ognuno di questi rischi ha il potenziale di causare degradazione ambientale, danni economici, emergenza sociale e turbolenze politiche. Gli impatti aumentano quando gli effetti si combinano». È un cambio di narrazione che nella scienza del clima è in corso da tempo: smettete di parlarne come un problema ambientale, questo è un problema sociale, economico e sanitario.
Dici Italia senza dire Italia
Dentro il rapporto non è scritto specificamente, ma c'è un identikit di rischio che spicca tra gli altri e porta esattamente all'Italia. Le aree più vulnerabili alla policrisi climatica, secondo l'Agenza europea dell'ambiente, sono quelle meridionali, quelle costiere e quelle che si trovano già in difficoltà economica e sociale.
Praticamente, un modo per dire Italia senza dire Italia. Si parla di crollo dei raccolti nell'Europa meridionale (con aumento dei prezzi e scarsità di materie prime), di siccità che nei prossimi decenni si trasformeranno in mega-drought, mega siccità, che copriranno archi temporali di anni e non più soltanto di mesi.
Secondo questo rapporto il Sud Italia della crisi climatica potrebbe trasformarsi in una bomba sociale nei prossimi decenni. Con l'aggiunta di una serie di dettagli inquietanti: «Ormai il clima dell'Europa meridionale è caldo abbastanza da permettere alle zanzare di trasmettere malattie tropicali».
Anche per questo colpisce quello che è successo in un'altra sede, il Tribunale civile di Roma la settimana scorsa ha dato torto ai sostenitori della prima causa climatica italiana, quella guidata dagli avvocati della ONG A Sud contro lo Stato. Sono anni che la lotta al riscaldamento globale passa anche dai tribunali. Secondo un report ONU alla fine del 2023 c'erano 2180 cause di questo tipo aperte nel mondo.
Questa tendenza ha portato a sentenze epocali: in Francia, Germania, Olanda, Irlanda, Repubblica Ceca i tribunali hanno dato ragione agli ambientalisti, spingendo i governi a cambiare leggi e politiche e tagliare le emissioni. In Spagna c'era stata invece una sconfitta pochi mesi fa. Non era mai successo però, come in Italia, che si arrivasse a una «pronuncia di inammissibilità», cioè che il giudice dicesse, sostanzialmente: questo non è il luogo adatto per parlare di clima.
«È un'anomalia che ci siano voluti oltre due anni, diverse udienze, migliaia di documenti, per giungere al punto dove si poteva arrivare fin dalla prima udienza, senza fare tutto questo percorso», commenta Luca Saltalamacchia, l'avvocato che ha costruito la causa. Il ragionamento del giudice parte dal riconoscimento della gravità dell'emergenza climatica, ma arriva alla considerazione che la giustizia non ha le competenze né la giurisdizione per intervenire su una materia così politica e tecnica. «Il punto è che noi non chiedevamo specifiche misure dalla sentenza, ma il riconoscimento che un diritto dei cittadini viene violato da parte dello Stato».
La citazione in giudizio chiedeva che il tribunale ordinasse di tagliare le emissioni in quantità compatibile con l'accordo di Parigi (firmato dall'Italia nel 2015), cioè del 90% entro il decennio. Una misura effettivamente alta, improbabile visto il corso della nostra economia, «ma la giudice poteva anche decidere un altro taglio di emissioni, invece ha proprio scelto di non decidere. In ogni caso sarebbe stato poi compito del governo e del parlamento stabilire come arrivare concretamente all'obiettivo».
La causa climatica contro lo Stato parte nel 2021, con l'obiettivo di imporre un cambio di rotta entro la fine di questo decennio. Siamo nel 2024 ed è appena arrivato il primo grado. Con i tempi della giustizia italiana era inevitabile una sentenza vicina al 2030. In ogni caso, non ci sarebbero stati i tempi tecnici per arrivare a un taglio così netto delle emissioni per questa via. Non era questo il vero obiettivo della causa, che aveva scopi più mediatici e politici: stimolare un dibattito pubblico sulle ragioni del clima.
Al di là della sentenza, questo scopo può essere dichiarato fallito, e non per incapacità degli ambientalisti. La causa ha fatto il suo decorso praticamente invisibile. Né i politici né le Tv ne hanno parlato. In Francia un contenzioso analogo era arrivato in tribunale sostenuto da due milioni di firme, in Italia ne sono state raccolte 20mila, in Germania e Olanda ogni udienza era una notizia da TG.
In questi paesi, al di là del merito o delle opinioni, erano state dei casi nazionali. L'esperimento in Italia non ha funzionato, ed è la prova di quanto è distratto il nostro paese su questo argomento. Che poi è il senso stesso dell'allarme dell'Agenzia europea per l'ambiente: il clima ha l'Italia nel mirino, ma non ce ne stiamo occupando.
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