Il progetto di una miniera di litio in Nevada è bloccato dalle proteste di allevatori, ambientalisti, comunità native. Storie simili si trovano anche in Spagna, Portogallo e Serbia. È uno dei conflitti della transizione energetica: servono più miniere per le batterie, ma nessuno le vuole
- Negli Stati Uniti il progetto di una miniera di litio in Nevada è bloccato dalle proteste e dai ricorsi di allevatori, ambientalisti, comunità native. È uno dei conflitti della transizione energetica: servono più miniere per i metalli critici ma nessuno le vuole.
- In Europa le proteste più eclatanti sono state in Portogallo e in Spagna, e poi c’è il caso della Serbia, dove le manifestazioni di piazza hanno respinto Rio Tinto e quella che sarebbe stata la più grande miniera del continente.
- L’estrazione mineraria era considerato un business sporco e antiquato ed è stato delocalizzato nel sud del mondo, finché non ci siamo accorti che la transizione aveva bisogno di metalli. E l’onshoring minerario è un problema tanto ambientale quanto culturale e politico.
La remota contea di Humboldt, nello stato del Nevada, è diventata una frontiera della transizione energetica e dei suoi conflitti ambientali e sociali.
Il motivo è semplice: è stracolma di litio, il metallo chiave per fare le batterie elettriche. Iniziare a scavare le riserve di Thacker Pass cambierebbe la geografia di questa risorsa, dominata oggi da alcuni paesi sudamericani (soprattutto Cile), dall’Australia, e dalla Cina come utilizzatore finale.
I depositi in questo territorio sacro per gli indigeni Paiute sono i più grandi degli Stati Uniti e tra i più vasti al mondo. Oggi gli Usa sono costretti a importare quasi tutto il litio che usano e useranno nella filiera delle batterie che vogliono costruire per contrastare il dominio cinese.
Questa carenza è considerata una delle grandi vulnerabilità strategiche in vista del futuro. Thacker Pass, terra di artemisie, ranch e bestiame, cambierebbe completamente la partita: potrebbe provvedere a 60mila tonnellate l’anno, dove la domanda annua mondiale al 2025 sarà di 700mila.
Il problema è che quella miniera è diventata la nuova battaglia dell’ambientalismo americano, gli attivisti la presidiano da un anno con un campo permanente ed è bloccata in tribunale da un intreccio di cause legali.
Le hanno presentate i rappresentanti dei nativi, gli allevatori e gli ambientalisti e portano tutte allo stesso punto: no alla miniera e alle sue conseguenze locali sulle riserve idriche e la fauna, anche se il suo effetto globale sarebbe utile per la decarbonizzazione dell’economia.
Senza litio non si fanno batterie, senza batterie non c’è transizione energetica. Quella del litio è un’estrazione assetata di acqua: la valutazione di impatto ambientale per Thacker Pass parla di 250 litri al minuto, senza contare il rischio di inquinamento delle falde con l’arsenico.
Tra le preoccupazioni citate nelle cause ci sono quelle per la riproduzione delle aquile reali, delle trote e di una specie di lumaca che vive solo qui.
È presto per dire se Thacker Pass sarà per gli anni Venti quello che per il decennio è scorso è stata la mobilitazione contro l’oleodotto Keystone XL, archiviato da Biden con uno dei suoi primi ordini esecutivi da presidente, ma è sicuramente la traccia di un conflitto nuovo.
La mappa delle proteste
Thacker Pass non è un episodio isolato. Accanto all’insolita cartografia estrattiva del litio, se ne potrebbe scrivere una con le proteste per bloccare i nuovi progetti per ampliarla.
I due grandi blocchi in ritardo con la transizione sono Unione Europea e Stati Uniti e da tempo hanno inserito nella loro strategia l’onshoring delle miniere, invertendo una tendenza secolare.
Lo scopo è sottrarre le filiere della nuova energia alle ansie di supply chain instabili. La domanda di litio crescerà entro il 2040 del 42 per cento secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, il riciclo di quello che troviamo nelle batterie dismesse potrà assorbire tra il 20 per cento e il 55 per cento della domanda, a seconda delle stime, ma ci vorranno decenni di investimenti e innovazione.
Nell’immediato non c’è alternativa: bisogna iniziare a scavare, visto che oggi l’Ue estrae il 5 per cento dei materiali critici e ne consuma il 20 per cento, e questo senza ancora aver aperto le 20 gigafactory che dovrebbero rimetterci sulla mappa della transizione energetica.
Tornare ad aprire miniere per i materiali critici avrebbe anche un senso dal punto di vista di ambientale, per le regolamentazioni più rigide che altrove, e l’Unione europea sta provando in tutti i modi a far passare un’immagine positiva del green mining: «Lo possiamo fare nel modo giusto, in passato queste erano operazioni molto sporche, oggi hanno elevato contenuto tecnologico e possono essere fatte rispettando tutte le regole», ha dichiarato Peter Handley, capo della divisione Raw Materials della Commissione Europea. Per ora, nessuno gli ha creduto.
Dentro i confini dell’Unione ci sono depositi di litio nella Finlandia meridionale, nella valle del Reno in Germania, ma il paese più esposto è il Portogallo, che ha anche riserve di altri metalli critici come nickel e cobalto.
I comitati locali protestano da mesi contro il piano del governo nella zona di Montalegre, tra Porto e il confine spagnolo, temono gli effetti sull’agricoltura, il turismo e il paesaggio. Sono sei i progetti di estrazione in fase di approvazione, per un totale di 60mila tonnellate, tutti contestati e bloccati da cause e ricorsi.
Ci sono tensioni anche nell’Estremadura, in Spagna, dove le riserve sono a distanza di passeggiata dalla città di Cáceres, sito Unesco e set di Game of Thrones. Fino agli anni Settanta c’era una miniera di stagno, di cui gli abitanti hanno conservato un ricordo pessimo, che era ancora vivido quando il governo ha iniziato a parlare di litio.
«Ci vogliono costringere, è lo stesso modello colonialista usato in Africa e Sudamerica», ha detto il leader delle proteste, cogliendo il punto della questione.
L’ombra colonialista
Le miniere sono state considerate a lungo un business sporco e antiquato, da delocalizzare nel sud del mondo, finché i metalli non hanno iniziato a valere tantissimo e a rivelarsi molto scarsi.
Il progetto di Cáceres, come tanti altri, è in stallo. È una tendenza che l’industria mineraria conosce bene, i ritardi legali per conflitti con le comunità locali possono costare a un progetto su larga scala (di quelli sopra i 3 miliardi di dollari in valore) fino a 20 milioni di dollari alla settimana, come calcolato in una ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences nel 2018.
Il caso più eclatante e visibile però ha riguardato la Serbia, dove migliaia di persone sono scese in strada per mesi a Belgrado e Novi Sad, bloccandole per protestare contro il progetto dell’anglo-australiana Rio Tinto di aprire quella che sarebbe diventata la più grande miniera di litio del continente europeo.
I permessi sono stati alla fine cancellati e la piazza ha alzato il tiro: ora chiede un bando permanente a qualunque estrazione di litio. Le manifestazioni si sono intrecciate alle tensioni tra Australia e Serbia sul caso Djokovic e soprattutto al fatto che ad aprile nel paese si vota.
Per gli Stati Uniti il fronte ambientalista è ancora più compattato dal fatto che il 79 per cento del litio si trova sopra o nei pressi di riserve native. Gli indigeni sono stati il collante di tutto il decennio di mobilitazione contro le infrastrutture fossili, Keystone XL compreso.
Per l’ecologia contemporanea, ispirata alla giustizia climatica più che alla semplice difesa degli ecosistemi naturali, la difesa delle popolazioni indigene è diventato un principio cardine, come hanno dimostrato le proteste durante COP26 a Glasgow, dove i capi di popolazioni native da tutto il mondo erano in prima fila nei cortei.
Il salto di sensibilità viene avvertito anche dalla politica e dagli organi giuridici. La Corte costituzionale dell’Ecuador ha messo il consenso delle comunità indigene come obbligatorio sia per le estrazioni di petrolio che minerarie sulle loro terre.
C’è un caso simile in discussione in Guatemala, sul diritto dei Q’eqchi’ di bloccare una miniera di nickel, il metallo che dovrebbe eliminare il cobalto dalle filiere della transizione energetica.
Tornando in Ecuador, due progetti minerari (rame e oro) nella foresta pluviale sono stati fermati perché violavano i diritti di Pachamama, «madre Terra», che il paese è stato il primo a riconoscere in Costituzione. Ma il paese dove tutto questo è più chiaro è il Cile di Gabriel Boric, il primo produttore mondiale di rame e il secondo di litio.
Il governo uscente di Sebastián Piñera ha lasciato in eredità nuove miniere per 80mila tonnellate di litio. Il nuovo presidente Boric entra in carica a marzo con una piattaforma politica di rispetto dell'ambiente e delle comunità indigene, proprio mentre la nuova assemblea costituente discute se proteggere legalmente i diritti degli ecosistemi sul modello dell’Ecuador.
Tra i progetti di Boric c’è quello della nazionalizzazione delle estrazioni e l’idea di fermare la miniera di rame di Dominga, vicina a delicate aree protette. Non il contesto che sognano le grandi società minerarie globali.
Il litio, che potrebbe fare del Cile una sorta di Arabia Saudita della transizione, è in una posizione critica, perché l'estrazione per evaporazione sulle Ande è una tragedia idrica, mentre il paese è al decimo anno di siccità.
Trovare un equilibrio tra lo sviluppo economico promesso dalle sue risorse naturali e la tutela di ecosistemi e comunità sarà uno dei compiti più difficili per il presidente millennial, che non deve solo trovare una via sostenibile al litio, ma cercare un intero nuovo paradigma ecologista.
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