Migliaia di scuole sono in aree a alto rischio sismico, ma l’Italia continua a non avere una strategia o priorità d’intervento, come ci chiedeva di fare l’Europa con il Pnrr. E il trasferimento di poteri e risorse alle Regioni rischia di aggravare questa situazione
La finestra di speranza legata al PNRR sembra essersi definitivamente chiusa per i 40mila edifici scolastici italiani. Mancano le risorse e soprattutto il cambio di passo che l’Europa ci chiede per individuare le priorità e supportare i progetti dei Comuni.
Quasi 3mila scuole sono in zona ad alto rischio sismico, ma occorre affidarsi alla buona sorte e sperare che nulla accada in edifici sempre più vecchi, pericolosi e inadeguati.
Non dovremmo aspettare l’Europa per definire una strategia e partire con interventi nelle scuole più a rischio, ma può essere il Governo Meloni credibile nel momento in cui trasferisce risorse e poteri alle Regioni?
La finestra di speranza legata al Pnrr sembra essersi definitivamente chiusa per le scuole italiane.
Il problema è di risorse per gli interventi ma soprattutto riguarda quel cambio di passo che l’Europa ci chiedeva nell’affrontare la riqualificazione di un patrimonio di oltre 40mila edifici pubblici. Con riforme capaci di dare continuità ai progetti e priorità chiare per intervenire a partire da dove più rilevanti sono i problemi.
Senza risorse
L’immagine più efficace sta nella risposta, franca, ricevuta dagli studenti di un liceo di Roma che – tra le varie rivendicazioni – chiedevano interventi per ridurre il degrado della struttura e riqualificare aule e spazi comuni: «Non ci sono soldi».
È così, per gli edifici che non rientrano nel Pnrr le risorse non ci sono e neppure la speranza di vedere un giorno un miglioramento. Come nel secolo scorso si è lasciati a sperare nella buona sorte, alle preghiere per i credenti, perché nulla accada nei 2876 edifici che sappiamo essere in zona sismica 1. Ossia dove la probabilità che avvenga un terremoto è alta, come a Messina o risalendo la penisola a Foligno, per arrivare ai Comuni del Friuli. Sappiamo esattamente dove sono queste scuole su cui dovrebbe andare tutta l’attenzione politica e l’impegno alla messa in sicurezza, così come sappiamo dove sono le 14.467 scuole in zona sismica 2, ossia dove il rischio sismico è medio-alto. Non ci mancano certamente le informazioni, eppure nel 2023 la strategia è ancora quella del fatalismo e nulla hanno insegnato i terremoti che hanno messo in ginocchio Abruzzo, Marche, Emilia, Umbria.
È emblematico che chi volesse farsi un’idea della situazione italiana può affidarsi solo alle benemerite associazioni di cittadini che ogni anno elaborano analisi, sfornano numeri e valutazioni aggiornate della situazione, visto che nessuno ne sente la necessità tra gli organi dello stato. A proposito di riforme, quanto si deve ancora aspettare per superare una situazione per cui questi problemi non sono di competenza del ministero che si occupa dell’istruzione, ma neanche di quello che si occupa delle infrastrutture, e vengono lasciati senza risorse e indicazioni a comuni, province e città metropolitane, come se non fossero una grande questione nazionale ma un problema di Sala, Gualtieri e degli altri ottomila sindaci?
Garantire la sicurezza
I numeri dell’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva sullo stato di salute delle scuole italiane sono chiari e inquietanti. C’è un enorme gap in termini di sicurezza degli edifici dove ogni giorno entrano oltre sette milioni di bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Grazie alle risorse del Pnrr si sta aprendo una fase senza precedenti, con cantieri per la costruzione di 212 nuove scuole, oltre 3mila interventi per la messa in sicurezza di edifici scolastici, circa 2mila interventi che riguardano scuole d’infanzia e asili per aumentare i posti a disposizione, oltre alla costruzione di mille nuove mense, di 150 nuove palestre e con 350 che verranno riqualificate.
Pur tra tanti problemi e ritardi si è messa in moto una macchina amministrativa importante che produrrà risultati attesi da tempo. Il problema è che rischiano di essere interventi a macchia di leopardo e da giugno 2026, quando terminerà il Recovery Plan, ci si ritroverà senza una bussola e con i Comuni che, dopo la corsa a chiudere i cantieri, saranno di nuovo da soli di fronte a una montagna da scalare.
Eppure oggi, tra mille ritardi si sta completando l’anagrafe del patrimonio edilizio scolastica e dunque sappiamo sia l’età degli edifici, da cui ricavare se al momento della costruzione fossero in vigore le normative in materia di sicurezza, che la classe di rischio del territorio. Le tabelle di Cittadinanzattiva raccontano i ritardi in termini di conoscenze da colmare, visto che il 58 per cento delle scuole è privo del certificato di agibilità, il 41 per cento di quello di collaudo statico.
E conosciamo anche le regioni dove occorrerebbe dare il maggiore supporto, come la Sicilia e Calabria dove tutti i capoluoghi di provincia, con la sola eccezione di Caltanissetta, sono in area sismica 1 e 2, e nel 65 per cento dei casi non è stata effettuata la verifica di vulnerabilità sismica. Possibile che di fronte a un quadro di tali pericoli sulle teste dei bambini i ritardi siano così rilevanti e che nei territori a maggior rischio sismico solo la metà delle scuole abbia completato le verifiche di vulnerabilità sismica quando il termine ultimo era il 31 dicembre 2023?
Caldo e freddo nelle scuole
Se per la sicurezza degli edifici è solo nostra la responsabilità di intervento, per la riqualificazione energetica l’Unione europea pretende che l’Italia definisca una strategia, che individui priorità, modelli di intervento e risorse. A Bruxelles la destra ha fatto di tutto per evitare obblighi e strappare rinvii, riuscendoci solo in parte, e ora il governo è obbligato a muoversi.
L’errore più grande sarebbe prenderla come un’ennesima imposizione per rispettare gli obiettivi sul clima di cui avremmo fatto volentieri a meno. Perché la spesa energetica degli edifici pubblici è nell’ordine dei miliardi di euro e ogni investimento di isolamento termico delle strutture, di installazione di pannelli solari e pompe di calore non solo conviene perché riduce in modo strutturale la bolletta, ma consente anche di rendere più accoglienti le aule d’inverno e d’estate.
A proposito di cambiamenti climatici già in atto, sta aumentando la frequenza delle giornate di giugno e luglio in cui dagli asili i bambini vengono rimandati a casa, perché le temperature all’interno di edifici senza aria condizionata sono tali da provocare disagio fisico e malori. Il Pnrr consentirà di mettere mano ad alcune migliaia di scuole ma non deve essere l’Europa a convincerci che serve una strategia per il futuro. Basta guardare l’enorme gap da recuperare descritto nell’ultimo Rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente, presentato a gennaio, e lo spreco di gas e elettricità per strutture inadeguate.
La buona notizia sono i tanti progetti in corso, anche con il coinvolgimento di aziende private che recuperano i costi degli interventi dalla gestione di impianti solari e sistemi di riscaldamento e raffrescamento che possono fare a meno di combustibili fossili. La sfida è cominciare da subito a immaginare il post Pnrr, per dare continuità agli interventi supportando gli enti locali nel portare avanti una progettazione in cui gli obiettivi di messa in sicurezza statica e di riqualificazione energetica viaggino assieme, che permetta di rendere spazi pensati settanta anni fa più accoglienti e funzionali alle esigenze didattiche.
La lezione imparata con il Recovery Plan è che, quando enti locali e strutture dello stato, come Gse, Cdp e Invitalia, lavorano assieme i risultati si possono raggiungere. Sono tanti i progetti che lo confermano e che possono essere replicati a partire dai territori e dagli edifici dove è più urgente. Il tema politico è se il governo Meloni è in grado di occuparsi di questi temi con un’efficace regia, proprio mentre sta approvando una riforma costituzionale che trasferisce poteri e risorse dai ministeri alle regioni.
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