A Capo Malfatano, alle spalle della spettacolare spiaggia di Tuerredda, c’è un’enorme struttura abbandonata. È il simbolo del fallimento di un progetto illegittimo, figlio della speculazione, che non è ancora stato abbattuto
- Nel sud della Sardegna, a Capo Malfatano, c’è lo scheletro di un progetto da oltre 150 mila metri cubi di cemento (come dieci palazzi da dieci piani) bloccato dal 2016.
- Il progetto era di una società, oggi in fallimento, di cui facevano parte Benetton, Toti e gruppo Toffano. Un pastore ha fatto causa, e l’autorizzazione è risultata illegittima. Il pastore ha cercato una società per demolire la struttura ma è finito in una truffa.
- Maria Paola Morittu, avvocata di Italia Nostra, spiega: per abbattere bisogna ripresentare domanda di valutazione d’impatto ambientale per escludere definitivamente la possibilità di andare avanti.
La facciata del grande scheletro di cemento spunta come uno schiaffo dietro una curva della strada provinciale, seminascosto tra arbusti e vegetazione. Bastano pochi passi per arrivare al cancello arrugginito oltre il quale si erge un mastodontico edificio che si allunga con i suoi corpi aggiunti fino alle pendici della collina che domina il mare.
L’area incontaminata
Siamo nel sud della Sardegna, a Capo Malfatano, alle spalle della spettacolare spiaggia di Tuerredda, rimasta a lungo incontaminata dalle tentazioni di trasformarla in stile Costa Smeralda.
Fino a quando qualcuno non ha deciso di stravolgere quel paradiso naturale con un mostruoso progetto da oltre 150mila metri cubi di cemento (come dieci palazzi da dieci piani), prima aggredito dai ricorsi ambientalisti e poi bloccato definitivamente nel 2016. Ma lo scheletro è ancora lì.
A mettere gli occhi su Capo Malfatano e Tuerredda era stata la Sitas, Società iniziative agricole sarde, una sigla dietro cui si nascondeva una joint venture tra Sansedoni Spa (cioè Monte dei Paschi con l’allora vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone), Benetton, Toti e gruppo Toffano.
Su circa settecento ettari di verde e macchia mediterranea avrebbero voluto edificare un grande complesso alberghiero con servizi annessi, ville con piscina, residence, parcheggi, giardini privati e un campo da golf.
Una vera e propria Disneyland del turismo di lusso, parte del sogno della Costa Dorada che secondo gli amministratori del luogo avrebbe dovuto rappresentare nel sud dell’isola l’equivalente del modello di sviluppo smeraldino.
Peccato che la concessione a suo tempo ottenuta dalla società fosse illegittima, perché presentata attraverso uno spacchettamento fittizio in cinque lotti al fine di aggirare la valutazione di impatto ambientale, necessaria in un’area come quella, tutelata dal vincolo paesaggistico generale con il decreto 42/2004 (codice Urbani, che disciplina la materia dell’ambiente e del paesaggio in Italia), e con un vincolo di conservazione integrale nella fascia dei 300 metri dalla battigia marina recepito nel 2006 dal Piano paesaggistico regionale della Sardegna che tutela le coste dell’isola.
La battaglia di Ovidio Marras
È all’incirca il 2010 quando la Sitas viene fermata per la prima volta dall’avvio di una causa in sede “possessoria” intentata da un vecchio pastore della zona, Ovidio Marras.
Il pastore aveva visto sorgere il cantiere alberghiero proprio sopra l’antico stradello del suo bestiame e vedendo intralciato l’accesso alla sua proprietà, decide di rivolgersi al tribunale di Cagliari.
Marras è comproprietario delle parti “indivise” della lottizzazione che nel frattempo era sorta tutto intorno al suo furriatroxu, l’ovile-abitazione dove lui e la sua famiglia vivevano da tre generazioni.
A quell’azione si aggiunge poi il ricorso di Italia nostra, che contesta la legittimità delle autorizzazioni a suo tempo concesse dal comune di Teulada, di cui fa parte quel tratto di costa, e soprattutto lo spacchettamento fittizio del progetto originario in base al quale era stato possibile aggirare la valutazione di impatto ambientale in capo alla regione Sardegna.
Il 6 febbraio 2012 il Tar accoglie il ricorso presentato dagli avvocati Filippo Satta, Anna Romano e Carlo Dore e annulla sia l’autorizzazione paesaggistica che le due delibere comunali con le quali tra il 2008 e il 2010 era stato dato il via libera al progetto immobiliare.
Nella sentenza, durissima, emessa dai giudici si parla di «grave travisamento dei fatti», di «carenze istruttorie e motivazionali che inficiano la verifica preliminare svolta dalla regione, anche a prescindere dall’illegittimo spezzettamento nei diversi sub comparti» e che si traducono in una sostanziale «elusione della valutazione di impatto ambientale».
È la svolta: da quel momento in poi tutti gli ulteriori gradi di giudizio, dal Consiglio di stato alla Cassazione, confermeranno lo stop ai cantieri della Sitas, fino al fallimento della società dichiarato nel 2018.
Il mostro è ancora lì
La partita però non è ancora finita. Oggi il mostro edilizio è ancora lì, nelle mani di un commissario liquidatore, e non si sa se e chi dovrà demolirlo. Il rischio è che accada qualcosa di simile a quanto già avvenuto nella vicina Baia delle Ginestre: anni di contenzioso prima di arrivare alla demolizione di manufatti abusivi, in un’area mai bonificata dai cumuli di macerie e dove nessuno sembra volersi accollare le spese di ripristino ambientale.
Il problema è lo stesso in tutta Italia: facile eludere le norme e costruire, più difficile liberarsi di quel che viene tirato su in fretta e furia, e poi rimane sospeso nel limbo, come nel caso di Tuerredda.
Il fallimento della Sitas è dunque una vittoria a metà, come spiega Consolata Marras, nipote del pastore Ovidio.
La società ha costruito su terreni in comunione e ha acceso su di essi ipoteche che gravano, paradossalmente, anche sul podere dei Marras.
Poi ci sono i danni, con la causa intentata a sua volta dalla società contro la regione, e tutt’ora pendente in tribunale.
«L’incertezza è tanta e occorre continuare a vigilare», spiega Maria Paola Morittu, avvocata di Italia nostra che ha seguito la vicenda sin dall’inizio. «In base alle norme vigenti, prima di procedere all’abbattimento occorre ripresentare la domanda di valutazione d’impatto ambientale, comprensiva dell’intero progetto, per poter poi escludere definitivamente la possibilità di andare avanti».
Le incognite sono tante, nonostante il fallimento della proponente Sitas e le palesi illegittimità che pesano sull’intero progetto: non ultimo il fatto che l’edificio alberghiero si trova a pochi metri dal letto di un fiume soggetto a piene e che per i vincoli idrogeologici avrebbe dovuto essere collocato altrove.
«La Sitas è ora in liquidazione. Siamo davvero sicuri che il progetto non vada più avanti o c’è il rischio che qualcuno lo riprenda?» Morittu non scende in particolari, ma nell’intricata storia di Tuerredda si innesta anche un’oscura vicenda che ha per protagonisti studi legali e sedi fittizie di società fra Milano, Dubai e le Isole Vergini, su cui il pubblico ministero cagliaritano Giangiacomo Pilia ha aperto un’inchiesta contro ignoti con l’ipotesi di truffa.
Arriva un terzo incomodo
A un certo punto infatti, nel contenzioso fra Ovidio e la Sitas, spunta un terzo incomodo a rivendicare i diritti ereditari dei terreni rimasti in mano ai Marras: si tratterebbe della Ace of Spades Guandong Opportunity Investments con sede negli Emirati Arabi, un soggetto riconducibile ad un gioco di scatole cinesi messo in piedi dall’avvocato milanese Paolo Calmetta, a cui Ovidio Marras si era rivolto inizialmente nel 2010 per ottenere la demolizione dell’albergo davanti al suo ovile, e che in seguito avrebbe sottoposto al pastore un contratto capestro delle cui conseguenze era totalmente inconsapevole.
Tanto che il tribunale arbitrale successivamente nominato ha condannato Calmetta, per il tramite della prima società beneficiaria nel contratto, al pagamento delle spese legali per l’importo di 300mila euro. Il contratto capestro ora attende di essere annullato, nel qual caso Ovidio e la sua famiglia diventerebbero gli unici legali proprietari dell’area.
Comunque la si veda, la storia di Tuerredda è una storia di speculazione edilizia annunciata, in uno degli angoli più belli ed incontaminati del Mediterraneo che fa gola a molti, in primis a chi quel paradiso dovrebbe difenderlo. È nato 50 anni fa il sogno mattonaro della Costa Dorada, con la prima versione della Sitas spa, allora in mano ai lombardi Monzino.
La società venne poi rilevata dalla Forma Urbis di due architetti-imprenditori veneti, accolti a braccia aperte dall’allora sindaco di Teulada Tore Mocci, pronto a spalancare le porte a un progetto che avrebbe, a suo dire, portato almeno 2.500 posti di lavoro grazie ai 189 mila metri cubi di alberghi e ville di lusso che gli intraprendenti veneti dicevano di voler realizzare.
In realtà non fecero mai niente: il vero obiettivo era evidentemente l’approvazione di appetitosi progetti da rivendere a prezzi stratosferici.
È così che si arriva, di approvazione in approvazione, alle incredibili dichiarazioni del nuovo sindaco di Teulada Giovanni Albai che così ha giustificato nel marzo 2010 la variazione dell’impianto urbanistico concessa alla nuova compagine Mps-Caltagirone, Toti e Benetton: «Gli interventi residenziali hanno necessità di cura e manutenzione durante tutto il corso dell’anno, quindi le attività dell’edilizia, del giardinaggio e dell’impiantistica potrebbero assumere un importante ruolo nello sviluppo e nell’occupazione locale».
Era successo che alcuni lotti del piano edificatorio dell’area Malfatano-Tuerredda erano stati bloccati dalla Guardia forestale, rendendo necessario lo spostamento di volumetrie per non perdere cubatura. La società aveva quindi proposto una variante. Da qui l’idea: pur di agevolare la Sitas, l’amministrazione aveva deciso di conferire a un legale un incarico di supporto della pratica.
La vicenda è poi finita in tribunale con accuse di turbativa d’asta e violazione del segreto di gara, perché la variante (illegittima) aveva dovuto passare per una consulenza legale affidata tramite gara d’appalto pubblica, risultata poi truccata.
Ancora una volta a puntare un faro sul comune di Teulada, accusato in sostanza di complicità con i cementificatori, erano stati gli ambientalisti del Gruppo d’intervento giuridico. Avvocati sardi costretti a difendere le coste dai sardi.
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