- Gli escursioni morti nell’incidente sulla Marmolada sono vittime della crisi climatica: il ghiacciaio è da anni il simbolo del collasso della criosfera italiana, il crollo è avvenuto per l’effetto della mancanza di copertura nevosa e per la lunga ondata di calore.
- Quando la Marmolada fu scalata per la prima volta nel 1864, dal viennese Paul Grohmann, il ghiacciaio era intatto e nell'atmosfera globale c'erano 284 parti di CO2 per milione. Oggi sono 420 parti per milione, il ghiacciaio è in punto di morte e in quel punto di morte uccide.
- Quella dei ghiacciai è una parabola sui punti di non ritorno da non superare, perché una volta varcati si innescano dinamiche che si autoalimentano e che non siamo più in grado di controllare.
«La Marmolada ormai è un fossile climatico. Noi la vediamo come se fosse ancora lì, ma è già la testimonianza di un clima che non esiste più». Sono parole di Giovanni Baccolo, ricercatore in glaciologia all’università Bicocca.
Il ghiacciaio delle Dolomiti, che domenica è crollato e ha ucciso sette escursionisti, ha perso il 90 per cento della sua massa originaria, il 70 per cento è sparito negli ultimi trent’anni. Oggi la Marmolada è già vestita per il suo funerale, negli ultimi anni è diventata un simbolo della crisi climatica sulle montagne italiane, una Cassandra geologica dei punti di non ritorno che stiamo superando in questa emergenza. Pochi giorni prima del disastro, gli attivisti di The Climate Route, spedizione di sensibilizzazione sui cambiamenti climatici, avevano simbolicamente scelto proprio la Marmolada come punto di partenza.
Come dice Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari del Cnr, «se anche smettessimo di emettere CO2 nell’istante in cui metto giù questa telefonata, i ghiacciai italiani a quelle quote, sotto i 3500 metri, sono spacciati e sparirebbero ugualmente nei prossimi trent’anni. Però possiamo ancora salvare quelli a quote più elevate». La ricetta è sempre quella prescritta dalla scienza del clima: smettere di bruciare combustibili fossili, non aprire nuove miniere di carbone e nuovi giacimenti di gas e petrolio.
Quando la Marmolada fu scalata per la prima volta nel 1864, dal viennese Paul Grohmann, il ghiacciaio era intatto e nell'atmosfera globale c'erano 284 parti di CO2 per milione. Oggi sono 420 parti per milione, il ghiacciaio è in punto di morte e in quel punto di morte uccide.
Il punto di non ritorno
La storia della tragedia di domenica è il perfetto esempio di come funziona un punto di non ritorno, oltre il quale gli ecosistemi sono vittime di dinamiche che sfuggono a ogni controllo e si autoalimentano tra loro. Atto primo: veniamo da un inverno in cui ha nevicato la metà rispetto alle medie storiche. «Senza quella coperta di neve, i ghiacciai sono più esposti alla radiazione solare all'inizio dell'estate», spiega Barbante. Il secondo atto sono stati diversi giorni consecutivi di caldo anomalo, fino al picco di 13°C il 20 giugno e ai 10°C il giorno prima del disastro: in tutto per la Marmolada sono stati ventitré giorni consecutivi sopra lo zero termico. Il terzo atto è che l'acqua di fusione del ghiacciaio, prodotta dal caldo e dalla mancanza di copertura nevosa, si è raccolta sotto la roccia, che in quel punto è fortemente in pendenza.
Il quarto atto, quello finale, è il crollo improvviso, che fa parte delle dinamiche dei punti di non ritorno quanto la scomparsa graduale: giorni di lavorio dell'acqua di fusione sotto la roccia hanno fatto crollare la calotta sotto il suo stesso peso. Gli escursionisti sulla Marmolada non sono morti per imprudenza, ma di una crisi climatica così veloce che non facciamo nemmeno più in tempo ad aggiornare quello che sappiamo sulla montagna, su quando, dove e come si possono fare le cose. Come dice Baccolo: «I ghiacciai italiani sono oggi nella condizione in cui si dovrebbero trovare alla fine dell’estate. E abbiamo ancora due mesi di caldo davanti».
«La gran parte dei ghiacciai italiani ha superato, e di gran lunga, il proprio punto di non ritorno», conclude Barbante. La Marmolada è un simbolo e ormai un pericolo, ma le nostre montagne sono piene di ghiacciai in situazioni drammatiche.
Senza piano
L’ultimo aggiornamento del Catasto Cnr sulla criosfera del nostro paese è del 2015: dal 1981 i ghiacciai delle Alpi hanno perso 2mila miliardi di litri di acqua. La superficie è ridotta di un terzo, si perdono tre chilometri quadrati all’anno.
In questo contesto, il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici è stato redatto nel 2017, dal 2018 attende un decreto attuativo, nel frattempo il clima è cambiato, abbiamo avuto la tempesta Vaia, due crisi degli incendi (2018 e 2021), una siccità e un possibile disastro agricolo. Il testo insomma non è stato approvato ed è già invecchiato.
Draghi è giustamente corso a Canazei, una scelta simbolica all’altezza del disastro, ma la politica in modo trasversale non sta tenendo il ritmo della crisi climatica. È tutto perduto? No. Il tema, oggi, sono i punti di non ritorno non ancora superati, perché una volta che la manomissione climatica ha innescato i suoi effetti non si torna più indietro. Come osserva Giorgio Vacchiano, docente dell’università di Milano e uno dei massimi esperti di clima in Italia, abbiamo riempito il mondo di punti di rottura: «Il rallentamento della corrente del Golfo, la savanizzazione dell’Amazzonia, lo scioglimento del permafrost: processi che accelerano all’improvviso e non si fermano facilmente, e che sarebbe meglio non innescare».
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