- Agli occhi di quel mondo che da anni lotta contro il caporalato e lavora per i diritti di tutti gli attori della filiera agroalimentare, l’incarico dato dalla Ministra Lamorgese a Roberto Maroni è un controsenso inspiegabile e inaccettabile
- Oltre alla nomina dell’ex ministro, c’è un problema che riguarda la moltiplicazione degli spazi istituzionali deputati a contrastare il caporalato, che inevitabilmente, finisce per avere come effetto il rallentamento dei processi decisionali e il raggiungimento di obiettivi ambiziosi
- Non si può ignorare la storia politica di Roberto Maroni e quella del suo partito, la Lega, che negli anni scorsi ha contribuito a creare nel paese un clima di persecuzione nei confronti delle persone migranti, che risiedono nelle nostre città e lavorano nelle nostre campagne.
In pochi si aspettavano di assistere alla lunga sequela di encomi e felicitazioni per la illustre e blasonata carriera, con cui è stato accolto, nel palazzo del Viminale, Roberto Maroni, il nuovo presidente della Consulta per l’attuazione del Protocollo d’intesa per la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato. La nomina dell’ex ministro dell’Interno e del Lavoro leghista, in un periodo non proprio roseo per i rapporti tra Matteo Salvini e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, appare il risultato di una strategia politica ben precisa, che punta a blindare l’inquilina del Viminale. Tuttavia, agli occhi di quel mondo che da anni lotta contro il caporalato e lavora per i diritti di tutti gli attori della filiera agroalimentare, questo incarico è un controsenso inspiegabile e inaccettabile, per varie ragioni.
Una scelta sbagliata
In questi anni abbiamo partecipato a diversi tavoli istituzionali per dare il nostro contributo nel rafforzare gli strumenti di azione contro lo sfruttamento in agricoltura, e sappiamo bene che la strada che porta alla creazione di condizioni di lavoro dignitose è ancora molto lunga e ricca di ostacoli. La nomina di Maroni è un ostacolo ulteriore e lo è per due ragioni.
La prima: lo sconcerto per la scelta di Maroni è stato preceduto dallo stupore con cui abbiamo accolto, a luglio, la decisione di istituire la Consulta, un ulteriore organo – oltre al già esistente tavolo caporalato – presieduto dagli stessi ministeri e impegnato nella stessa missione, cioè l’attuazione del piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo 2020-2022.
Una moltiplicazione degli spazi istituzionali deputati a contrastare questo fenomeno che, inevitabilmente, finisce per avere come effetto il rallentamento dei processi decisionali e il raggiungimento di obiettivi ambiziosi. Con questa nomina, la ministra Lamorgese non solo commette un grave errore, ma indebolisce fortemente gli spazi di democrazia, di confronto e dialogo sul tema del caporalato, che hanno visto finora protagonisti tante reti associative (tra cui la nostra), movimenti e sindacati nel riequilibrio della filiera agroalimentare e nella tutela dei diritti di tutti gli attori del comparto. Affidare ad una personalità con la storia e le idee di Maroni la presidenza di un organo che replica le azioni portate avanti in altri tavoli, renderà senz’altro complicata la consultazione degli attori coinvolti nell’azione di contrasto. Anche perché, elemento non secondario, non si capisce chi debba essere consultato da questa Consulta. La seconda ragione: non comprendiamo l’entusiasmo con cui ieri è stata presentata la nomina dell’ex ministro leghista dalla ministra Lamorgese, dai ministri Andrea Orlando e Stefano Patuanelli e dal presidente del Consiglio nazionale dell’Anci, Enzo Bianco, perché conosciamo molto bene la storia politica di Roberto Maroni e quella del suo partito, la Lega, che negli anni scorsi ha contribuito a creare nel paese un clima di persecuzione nei confronti delle persone migranti, che risiedono nelle nostre città e lavorano nelle nostre campagne. Basti citare solo Rosarno nel 2010, teatro di una delle più importanti rivolte dei lavoratori agricoli, sedata da una repressione poliziesca senza precedenti, ordinata proprio dall’allora ministro dell’Interno Maroni, che proprio in quegli anni piantava già i primi semi d’odio con il pacchetto sicurezza.
La contraddizione
Da oggi, allo stesso Maroni viene affidata una delle sfide più difficili del nostro tempo e del nostro paese: il contrasto allo sfruttamento di quelle stesse persone che lui e i suoi colleghi di partito avrebbero voluto espellere o processare solo perché “clandestini irregolari”, spesso residenti negli insediamenti informali della nostra penisola, sgomberati con forza negli anni in cui alla testa del ministero dell’Interno ci sarà Matteo Salvini. Buon sangue non mente. Ci verrà risposto che Maroni non è il Maroni di dieci anni fa e che è molto distante dalle politiche di Salvini. Ma se la storia serve a tenere traccia delle biografie, il presente ci ricorda che Maroni, a oggi, è ancora iscritto alla Lega. La questione abitativa degli stranieri che lavorano in agricoltura è tra i fascicoli più importanti sul tavolo dell’ex ministro. Un problema spinoso, divisivo, a cui i fondi del Pnrr potrebbero dare una risposta. Tuttavia la scelta di affidare al “partito della ruspa” i destini di migliaia di lavoratrici e lavoratori, oggi ci lascia interdetti. In queste ore di polemiche, si sta perdendo di vista chi pagherà il prezzo di queste scelte. Sono le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare italiana, schiacciati già fortemente sotto il peso degli squilibri verticali del comparto; sono le migranti e i migranti, arrivati da noi per lavorare; sono le vittime di caporalato, che urlano ancora giustizia.
© Riproduzione riservata