- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter ambientale di Domani.
- Questa settimana parliamo di Youth4Climate e della PreCOP, di modelli urbani innovativi e del dilemma del metano.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questa è stata una settimana particolare per il clima, per l’Italia e per Milano. Andiamo con ordine, questa è Areale, episodio ventisei.
Le lezioni del vertice di Milano
L’Italia è stata scossa da un’ondata di politica sul clima, l’epicentro è stato il Centro Congressi di Milano, dove si sono svolti i negoziati «dei giovani» (e di questo si dovrebbe parlare molto, lo abbiamo fatto nella cronaca quotidiana su Domani, intendo del recinto nel quale vengono chiuse le rivendicazioni e le proposte dei movimenti per il clima, «cose da giovani») di Youth4Climate e gli ultimi round preparatori della PreCop che porteranno al vertice di Glasgow, ormai tra solo un mese.
Abbiamo scoperto nuovi leader, come Vanessa Nakate (qui un ritratto che ho scritto, ascoltarla di persona mi ha colpito molto, per usare un eufemismo), abbiamo ritrovato intatta la forza mediatica di Greta Thunberg (la foto col ministro Cingolani, il suo «bla bla bla»), rivisto la voglia di Draghi di mettersi in gioco, di aprire la partita del dialogo intergenerazionale. C’è stato conflitto in strada, ci sono stati presidi, blocchi del traffico, scontri, cortei, attiviste e attivisti di Extinction Rebellion hanno occupato le redazioni per chiedere un racconto diverso sull’ambiente.
Sono state immagini che hanno colpito le testate stesse, quasi tutte hanno raccontato l’occupazione simbolica subìta, che ho visto il giorno dopo sulle prime pagine e nei telegiornali. Non so se fosse per l’efficacia estetica che hanno spesso le iniziative di Extinction Rebellion o per una sincera voglia di accogliere il messaggio, ma – se guardiamo all’Italia – questa settimana di eventi, discussioni e politica ha avuto il merito di far uscire crisi climatica e transizione ecologica da quell’angolo sonnolento nel quale sembrava finita, delegata all’uso dei fondi del Pnrr e alla semplificazione sulle procedure per le rinnovabili.
Al di là dei limiti dell’evento Youth4Climate e dei risultati negoziali della PreCop, è come se fosse ripartita un’onda di attenzione. Verrà sommersa di nuovo tra qui e la fine di ottobre, quando si tornerà a parlare di COP26, ma è il segnale che c’è un bisogno collettivo sotto la superficie, un’attesa di risposte e visibilità che va oltre il recinto di chi si occupa e riflette su questi temi più spesso della media, per lavoro, impegno personale o per semplice (si fa per dire) sensibilità e cittadinanza.
È stata una settimana complicata, ma non negativa. Il cambiamento sull’ambiente arriverà quando sarà una domanda diffusa, quella domanda sembra un po’ più vicina a concretizzarsi dopo questi giorni.
I giovani, appunto. Erano 400, scelti tra oltre 8mila richieste, c’era una varietà enorme, che era nella maggior parte dei casi ricchezza, valore. Aggirarsi per i corridoi del MiCo era anche attraversare le vibrazioni di una futura classe dirigente che ha voglia di immaginare un mondo diverso.
I momenti più interessanti sono stati quando il rigido protocollo è stato rotto, quello che ha più sentito l’esigenza di farlo è stato proprio il ministro Roberto Cingolani, che ha dialogato in modo diretto e spesso informale con i delegati, con alcuni ha scambiato anche i suoi contatti personali. Nella conferenza stampa finale ha ammesso di aver imparato personalmente tanto, probabilmente più di quanto si aspettasse.
I giovani nel documento finale hanno chiesto più sforzi per l’educazione ambientale globale, hanno implorato attenzione per le popolazioni indigene e un salto di qualità degli aiuti ai paesi rinnovabili (o almeno mantenere le promesse di 100 miliardi di dollari l’anno fatte a Parigi), hanno pure verbalizzato l’impossibile (l’uscita dalle fonti fossili tra nove anni), ma anche quello è un atto importante. E infine hanno preteso partecipazione e rappresentazione ai vertici, perché qui si parla di loro, soprattutto di loro. Non conosciamo le dimensioni della crisi climatica futura ma sappiamo per certo che chi ha venticinque anni oggi la subirà molto più di chi ne ha quarantacinque o sessantacinque.
È il punto politico più importante, vedremo quanto sarà raccolto.
Alla ricerca di modelli urbani
Intanto siamo ormai al voto per le amministrative. È stata una campagna elettorale nella quale, come scrivevo la settimana scorsa, l’ambiente è stato assente in modo preoccupante, non ci sono modelli, non ci sono laboratori, non ci sono idee, la politica urbana italiana sta diventando un livello ostile ai progetti di cambiamento.
Un luogo comune nel frattempo diventato già antico vuole che le città siano avanguardia del cambiamento ecologico, dovrebbero essere il fronte più avanzato, il luogo dove il futuro arriva prima. Visto quello che succede in Italia, speriamo di no. Però nel mondo ci sono modelli interessanti, su scale e in contesti molto diversi tra loro.
L’Italia è il secondo paese europeo per motorizzazione, per penetrazione di veicoli privati nella popolazione. Il primo è il Lussemburgo, paese piccolo, ricco, con molti confini e molti pendolari. Dal 2020 in tutto il Lussemburgo residenti e non residenti viaggiano gratis sui mezzi pubblici, tram, autobus, treni (esclusa la prima classe per questi ultimi). È una risposta alla crescita della popolazione (40 per cento in vent’anni) e all’alto numero di persone che arrivano ogni giorno da Francia, Belgio e Germania per lavorare.
L’idea non è solo del Lussemburgo, i trasporti pubblici sono gratuiti in trenta municipalità in Francia, a Tallinn in Estonia, per tutti i minorenni a Strasburgo.
Un modello di sviluppo urbano sostenibile meno recente ma interessante è quello di Curitiba, la capitale dello stato di Paranà, in Brasile, frutto di svariati decenni di innovazione in una città latinoamericana da quasi quattro milioni di abitanti. Il piano di crescita urbana si è sviluppato tutto intorno a una rete di transito rapido di autobus di superficie che funzionano quasi come una metropolitana attraverso una fitta rete di corsie preferenziali e un ingegnoso sistema di fermate a tubo che tagliano i tempi di ingresso.
Hanno praticamente inventato una metropolitana senza avere i tempi e i costi della costruzione di una metropolitana. L’85 per cento della popolazione in movimento si sposta così (numeri altissimi ovunque, ancora di più in Brasile). Uno degli artefici del sistema fu il sindaco Jaime Lerner, scomparso quest’anno. «La democrazia non è consenso», diceva. «La democrazia è conflitto ben governato».
Un’altra storia, diversa per scala e continente, ma interessante, è quella di Pontevedra, nella Spagna settentrionale, famosa come «la città dove i pedoni hanno preso il potere» o quella che «ha messo al bando le automobili». Non ci sono più parcheggi, a Pontevedra. Quando si vuole intervenire sulle auto, la prima leva sono spesso i parcheggi: qui ce n’è uno solo, molto grande e accogliente, gratuito, ai margini della città. L’auto la si lascia lì e si entra con mezzi pubblici o condivisi. Il 90 per cento della città – 83mila abitanti – è pedonale. C’è solo una piccola zona dove possono circolare, a velocità massima di 30 km/h. Le emissioni sono crollate del 70 per cento, non ci sono praticamente più incidenti mortali.
Il dilemma del metano
Non c’è solo l’anidride carbonica da affrontare. Uno degli aspetti più discussi della transizione ecologica globale è: cosa fare col metano? Questo gas dura meno della CO2 in atmosfera ma è ottanta volte più climalterante.
La scienza del clima ha da tempo attestato che disarmare il metano è un passaggio decisivo per provare a limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C: l’Onu calcola che il metano è responsabile di oltre un terzo dell’attuale aumento delle temperature rispetto all’era pre-industriale ed è peraltro in continua crescita.
Il ruolo di questo gas nelle strategie di riduzione delle emissioni è progressivamente diventato più politicamente visibile negli ultimi mesi, anche perché una sua riduzione sarebbe quella con gli effetti più veloci sullo stato dell’atmosfera.
Uno dei successi diplomatici più significativi delle ultime settimane in vista della COP26 di Glasgow è stato l’accordo raggiunto dagli Stati Uniti e dall’Unione europea: il Global Methane Pledge, un’iniziativa globale che sarà presentata ufficialmente al vertice in Scozia a novembre. L’impegno è ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento dai livelli del 2020 entro il 2030 e di arrivare a metodologie più efficaci per quantificarne i livelli nell’atmosfera. Allargare il consenso su questo taglio di un terzo delle emissioni di metano sarà uno degli obiettivi della COP26, riuscirci avrebbe da solo l’effetto di togliere 0,2°C di aumento delle temperature. Sarebbe vitale per gli obiettivi.
Il problema è che questo accordo ha una falla sulla principale fonte di emissioni globali da metano: l’agricoltura e l’allevamento di bestiame. Un quarto delle emissioni di questo gas derivano infatti dalla produzione di cibo e in alcuni grandi paesi – come gli Stati Uniti – superano quelle che vengono dalla produzione di fonti fossili. Il sistema del Global Methane Pledge prevede standard più rigidi per il settore oil & gas e per le discariche (gli altri due grandi settori produttori di metano) ma solo contributi volontari da parte dei grandi produttori di cibo.
Per questo motivo una rete di organizzazioni ambientaliste ha protestato contro l’architettura di questo impegno che sarà portato a Glasgow: «È come dare un via libera al mondo agricolo», hanno spiegato in un comunicato ufficiale. Riuscire a trovare una soluzione globale, giusta e condivisa per la produzione di cibo e relativi stili di vita sarà sicuramente una delle grandi sfide per il prossimo decennio di transizione ecologica.
Anche un nuovo rapporto del think-tank Energy Transition Commission ha messo la riduzione delle emissioni di metano al primo posto tra le misure necessarie per tenere vivo l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura a 1,5°C. Per rimanere negli obiettivi, quelle provenienti dall’estrazione e dal trasporto di gas e petrolio dovrebbero ridursi del 60 per cento, quelle del mondo agricolo del 30 per cento.
Le altre misure sono un blocco della deforestazione, l’uscita totale dal carbone per i paesi sviluppati nel 2030, l’elettrificazione dei trasporti e un bando dei motori a combustione entro il 2035 (come già previsto dal piano Fit for 55 della Commissione europea). La riduzione del metano rimane però un tema centrale: secondo lo studio sull’estrazione di gas si può intervenire tecnologicamente almeno per ridurre le perdite nella rete che sono una delle principali cause di emissioni. Ma rimane aperto il dilemma agricolo: come ridurre le emissioni di un settore che dovrà sfamare dieci miliardi di persone entro la fine del secolo è – tra le grandi sfide – quella di cui si parla di meno.
Il canone verde cresce
Prima di salutarci, sono molto contento del fatto che continuino ad arrivare proposte per il canone verde di Areale. Prima o poi questa biblioteca esisterà anche fisicamente, nel frattempo i titoli.
Massimiliano propone Dune di Frank Herbert, recentemente al cinema sotto forma di film di Dennis Villeneuve. «La tematica ecologica è molto importante in tutto il racconto incentrato in un mondo diventato desertico, dove ogni liquido è preziosissimo e riciclato in ogni modo».
Juliana invece suggerisce Idee per rimandare la fine del mondo di Ailton Krenak, «importante leader indigeno brasiliano, che qui fa un’analisi molto lucida delle differenze tra il modo ancestrale e il modo “occidentale” di vedere e interagire con la natura – e sulle nostre possibilità di seguire da ora in avanti. Un libro di lettura veloce (72 pagine), ma veramente capace di “ossigenare le idee”».
Per questa settimana è tutto, è stata intensa, è stata importante, riposiamoci. Se avete voglia di suggerire altre letture per il canone verde, o per qualsiasi altra critica, commento, suggerimento, richiesta o domanda, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com.
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Ferdinando Cotugno
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