- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter di Domani che si occupa di ambiente, clima ed ecologia e arriva ogni sabato mattina.
- Questa settimana parliamo di elezioni norvegesi, sequoie americane, deep sea mining, della rete di supporto di Glasgow in vista della Cop e dei tremendi numeri degli omicidi di attivisti e attiviste per l’ambiente.
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Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale. Porgo un benvenuto ai nuovi iscritti e alle nuove iscritte, ed è sempre un buon momento per ricordare che – se vi va, se vi piace, se imparate qualcosa, se pensate che sia importante o interessante – è utile far girare questa newsletter, condividerla, inoltrarla, fare il tifo per lei! Speditela a qualcuno a cui volete bene.
Prologo: forza Generale
Inizio parlando di General Sherman, che non è solo un personaggio storico (il generale americano William Tecumseh Sherman, per l’appunto) ma anche il nome dell’albero più grande al mondo, una sequoia gigante i cui dati volumetrici dicono: 1.487 metri cubi, per 84 metri di altezza, per 31 di circonferenza al suolo. Età: circa 2.500 anni, un albero più vecchio del cristianesimo, con una breve stagione rivoluzionaria nel suo curriculum: General Sherman (la sequoia, non il generale) per un periodo si chiamò Karl Marx tree, perché si trovava nel territorio di una comunità fondata da anarco-socialisti che erano andati a vivere sulla Sierra per sfuggire al capitalismo.
Nel Sequoia National Park ci sono in questo momento due incendi che minacciano questo immenso albero, tizzoni all’interno del grande rogo del West. Di fuoco, il generale ne ha visto (le sequoie sono molto resistenti, e altrimenti non vivrebbero svariati secoli e talvolta millenni), ma mai con queste proporzioni e durante una crisi climatica.
L’anno scorso un incendio analogo uccise un migliaio di sequoie giganti in California, General Sherman è stato avvolto in una coperta di alluminio, nel caso il fuoco arrivasse dalle sue parti. Non è lontano, purtroppo. Forza generale.
Fine dell’introduzione.
Il dilemma esistenziale norvegese: dottor Climate, mister Hyde
Siamo alla vigilia di elezioni con un’importanza senza precedenti: parlo di quelle tedesche, ovviamente. Lo scenario è cambiato rispetto a qualche mese fa. La Cdu post Merkel sembra sempre in difficoltà, ma i pragmatici verdi germanici guidati da Annalena Baerbock – partito aspirazionale di ogni politico ambientalista italiano – hanno perso il momentum che per un periodo ha fatto ipotizzare una cancelliera ambientalista, e l’inerzia sembra a favore della Spd socialdemocratica di Olaf Sholz.
C’è stata un’altra elezione europea con funzione di prequel, anticipazione e antipasto: quella norvegese. È importante. Seguitemi.
Anche qui una premier di centrodestra usciva da una lunga stagione di governo (anche se con meno anni, meno carisma, meno tutto) e alla fine sono subentrati i socialdemocratici. Per questa newsletter, il voto norvegese è importante perché sono state elezioni dominate dal clima e dal petrolio, dentro uno dei paesi più paradossali al mondo.
In Norvegia più di due terzi delle nuove auto vendute sono elettriche, il paese ha un solido schema di tassazione delle emissioni che nel 2030 raddoppierà, sta elettrificando pure i traghetti, Oslo si sta liberando delle auto, globalmente – e con un governo conservatore – la Norvegia è stata negli ultimi anni uno dei leader nella lotta contro la plastica e la deforestazione.
Eppure la Norvegia è anche il principale produttore europeo di idrocarburi, il 20 per cento dell’economia ruota intorno al petrolio e al gas, il 7 per cento dei norvegesi lavora nel settore, al momento ci sono 525 licenze di estrazione attive e da oltre un decennio è partita anche l’esplorazione nel mare di Barents.
Insomma, il voto in Norvegia è la risposta alla domanda: come reagisce alla crisi climatica un elettorato ambientalista ma arricchito con le fonti fossili? La risposta è: un po’ a metà, una mano sul portafogli e una sul cuore. In campagna elettorale, ogni partito norvegese era definito dalla sua risposta al dilemma (come mostra questa infografica del Cicero Institute https://www.ciceroinstitute.org/).
Il voto più radicale per fermare sia l’estrazione che l’esplorazione petrolifera è andato meno bene del previsto, i voti si sono dispersi tra diversi partiti, i Verdi scontano un risultato deludente.
Il partito che ha vinto, i laburisti guidati dal futuro premier Jonas Gahr Støre, non sono anti-petrolio né pro-petrolio, una posizione ambigua e in parte pericolosa. Il leader ha più volte detto che mettere una data di scadenza alla produzione petrolifera sarebbe come buttare la gente in mare e lui non vuole farlo.
Per ora il compromesso è continuare con l’estrazione, trovare un modo per limitare le nuove esplorazioni: Støre dice che vuole accontentare le nuove generazioni preoccupate per la crisi climatica, ma di essere anche dalla parte delle «persone comuni» e del lavoro. Cerchio, botte e trivelle.
Il dilemma norvegese è come la nostra crisi delle bollette, ma su scala esistenziale, è la domanda sul futuro di una nazione. Il voto di settembre ha messo ai margini le forze che volevano un cambio di rotta radicale, il governo di centrosinistra sarà basato su partiti moderati che vogliono una transizione moderata in tempi moderati. Lo stile di vita dei norvegesi rimarrà ecologista e pro-natura, l’economia rimarrà fossile ancora per un po’, è una perfetta parabola dei nostri tempi. Erano le prime elezioni del clima, ma il clima non sembra aver vinto.
L’anno record degli omicidi di attivisti
Nonostante la pandemia, il 2020 è stato un anno senza precedenti per gli omicidi mirati degli attivisti per l’ambiente in tutto il mondo. Sono usciti questa settimana i numeri del rapporto annuale prodotto dal 2012 dalla Ong britannica Global Witness e sono sconfortanti: sono state 227 le persone assassinate perché si battevano per cause legate alla protezione dell’ambiente, contro lo sfruttamento fuorilegge di risorse naturali, l’industria del legname, l’estrazione mineraria, nuove infrastrutture e dighe idroelettriche.
Da quando è stato siglato l’Accordo di Parigi nel 2015 in media quattro attivisti sono stati uccisi ogni settimana, numeri che secondo l’organizzazione britannica sono «sicuramente sottostimati per le crescenti restrizioni contro il lavoro dei giornalisti». Secondo il rapporto, le aree del mondo dove è più pericoloso sostenere attivamente una causa ambientale sono l’America Latina e il bacino amazzonico.
L’opaca industria del legname nei paesi tropicali è quella che ha il conteggio di vittime più alto nel 2020 (non a caso anno record della deforestazione), tutte tra Brasile, Nicaragua, Filippine e Perù. Il paese con più morti legati alle cause ambientali invece è la Colombia, con 65 omicidi, mentre il Nicaragua è quello con più morti procapite.
Global Wiitness evidenzia due storie. Tra le persone assassinate c’è Fikile Ntshangase, sudafricana, 65 anni, che portava avanti una battaglia legale nella provincia del KwaZulu-Natal contro l’estensione di una miniera a cielo aperto nella sua comunità. È stata uccisa nel suo salotto. Oppure Óscar Eyraud Adams, attivista messicano, che si batteva per migliorare l’accesso all’acqua della comunità indigena Kumiai in Baja California.
Proprio in questi mesi la Commissione europea sta lavorando a una normativa per impedire l’importazione nell’Unione europea di prodotti (come il legname, la carne, la soia, la pelle o la gomma) inseriti all’interno di filiere alla cui base c’è la distruzione degli ecosistemi e la violazione dei diritti umani, cioè esattamente le due questioni di cui si occupa il rapporto Global Witness.
Il regolamento europeo, peraltro, arriva dopo una consultazione pubblica di cittadini svolta nel 2020 (la più grande mai organizzata in Europa sui temi ambientali), è stato notevolmente rallentato dal lavoro delle varie lobby di settore e – da una bozza uscita in queste settimane – sembra anche applicare una definizione piuttosto ristretta di foresta, che terrebbe fuori zone come il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità del pianeta e il Pantanal, la zona umida più grande del mondo. Ogni indebolimento della normativa sarebbe anche un colpo alle lotte di molti degli attivisti raccontati da Global Witness.
Il rapporto esce anche a poca distanza dalle due Cop globali di Kunming, Cina (biodiversità) e Glasgow, Regno Unito (clima). Per motivi logistici, pratici e diplomatici, a entrambi gli eventi faranno fatica a partecipare attivisti che hanno lottato al fianco di quelli assassinati nel corso dell’ultimo anno, mentre da tempo la comunità ambientalista internazionale chiede il riconoscimento di queste voci nei negoziati su ambiente ed ecologia.
Chiudete la porta del deep sea mining
In un numero di Areale di qualche mese fa (se non eravate ancora della comunità, mandatemi una mail – trovate l’indirizzo in fondo alla newsletter – e ve lo inoltro) avevamo parlato dei rischi del deep sea mining, l’estrazione mineraria nelle profondità dell’oceano, per cercare minerali come manganese, nickel, cobalto, rame, ferro, terre rare, e dell’interesse per una piana abissale a 5mila metri di profondità tra Nauru e le Hawaii.
C’è stato un voto, legalmente irrilevante ma politicamente significativo, dal congresso di Marsiglia dell’Iucn, l’Unione internazionale per la conservazione della natura. Sia i governi che i membri della società (erano due voti separati) hanno deciso a larga maggioranza di fare un appello all’ente internazionale che regola la materia, l’International Seabed Authority, sede a Kingston, in Giamaica. Il contenuto è: fermare il deep sea mining. Ne sappiamo troppo poco, i rischi per gli oceani sono troppo alti, se apriamo questa porta alle società minerarie rischiamo di non poterla mai più chiudere. È pericoloso, insomma.
A margine, segnalo una lettura lunga, articolata e interessante su Foreign Policy sul complicato rapporto ecologico tra la Cina e gli oceani globali (c’entra il deep sea mining, ma c’è anche altro).
Glasgow solidale
Nello scorso numero di Areale si era parlato del difficile accesso alla COP26 per chiunque viaggi con budget limitati: la città è cara, gli alloggi durante l’evento sono carissimi. Però c’è una soluzione, dal basso, spontanea, di quelle che un po’ scaldano il cuore. La città stessa si è mobilitata per offrire un’alternativa a tutte le persone (attivisti, giornalisti, membri di organizzazioni non governative) non in grado di pagare migliaia di sterline per gli alberghi: sono tantissimi i cittadini e le cittadine che stanno offrendo gratuitamente stanze, letti, divani, gratuitamente o a cifre simboliche (5 o 10 sterline al giorno) alle persone che arriveranno in Scozia per seguire i lavori dell’Onu.
La rete si chiama COP26 Homestay Network, è stata organizzata dal Climate Chaos Scotland con la UK COP26 Coalition e Human Hotel. Ne ha parlato anche la BBC. Se invece andate a Glasgow, il link è questo: https://www.humanhotel.com/cop26/.
Canone green di Areale: aggiornamento
Da qualche settimana, sulla spinta di Penguin che ha creato il suo canone letterario ambientalista, stiamo provando a costruire anche quello di Areale. Libri che hanno plasmato la vostra sensibilità ecologista, che hanno creato il vostro sguardo sul mondo come è oggi.
È arrivato il contributo di Francesco da Monaco di Baviera.
«Devo dire che ho trovato più spunti nella letteratura americana dove il tema della wilderness di per sé e della sua interconnessione con l’umanità è stato approfondito tanto, a partire da Thoreau», scrive Francesco. E cita: The Abstract Wild, di Jack Turner, «che approfondisce con esempi concreti come “l’umano” e il “selvaggio” vanno insieme», oppure The Monkey Wrench Gang di Ed Abbey, «classico dell’ecologismo attivista». «Entrambi girano attorno alla figura di Doug Peacock di cui consiglio con tutto il cuore Grizzly Years. La storia autobiografica di come un veterano del Vietnam con Ptds trova equilibrio e pace passando tempo con gli orsi bruni nei parchi di Yellowstone e Glacier».
Riprendo la parola io: parlando di wilderness americana, ho letto questa bellissima intervista al New York Times di Richard Powers. Powers è l’autore del maestoso Il sussurro del mondo, che sta dritto al centro del mio canone ambientalista, storia di esseri umani, foreste e sequoie che attraversa le generazioni e la storia americana, un altro libro che fa quello che dice Francesco, spezzare la nostra convinzione che umano e naturale siano separati da un confine chiaro, netto e sorvegliato. Non è chiaro, non è netto, non è sorvegliato.
È tutto, anche per questa settimana.
Per contribuire al canone letterario ambientale di Areale, per ricevere numeri arretrati, per ogni forma di customer care, per scambiare idee, per iniziare lunghe corrispondenze, l’indirizzo al quale scrivermi è questo: ferdinando.cotugno@gmail.com.
Per comunicare con Domani, invece, dovete scrivere qui: lettori@editorialedomani.it.
Grazie, a presto.
Ferdinando Cotugno
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