- Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter su ambiente e clima di Domani.
- In questa edizione parliamo di guerra, clima ed emissioni, di loss and damage, di scricchiolii preoccupanti dall’Amazzonia e di comunicazione della scienza.
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Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, questa è la terza settimana di guerra, il terzo mese di siccità al nord, il terzo anno di pandemia. Quindi sì, è un periodo un po’ complicato, uno stress test per le nostre priorità, i valori, la resistenza mentale, però andiamo avanti, insieme, e quindi cominciamo.
Il domino ucraino
Partiamo da lì, dall’Ucraina, ovviamente, dallo strazio insostenibile dell’invasione russa, ogni giorno più insopportabile, e dall’effetto domino che sta avendo sul resto del mondo e su di noi. Esattamente quattro mesi fa era il secondo e ultimo venerdì della Cop26, il giorno successivo l’assemblea plenaria avrebbe approvato in un’atmosfera da House of Cards il Patto per il clima di Glasgow, uno strumento diplomatico fragile, pieno di buchi e di compromessi, ma anche l’inizio di nuove possibilità, un piccolo Stargate per un mondo nuovo.
Dentro quella dichiarazione si parlava di progressiva dismissione del carbone e di eliminazione dei sussidi alle fonti fossili per la prima volta in un documento Onu sul clima. Non tanto un risultato consolidato, quanto un punto di partenza, un «da ora facciamo sul serio». Poi è successo di tutto. Quattro mesi dopo, i successi di Glasgow sono stati smantellati, sembra che non siano mai esistiti, il clima è scivolato di nuovo indietro nelle priorità, qualcosa di cui occuparsi in un altro tempo, che non è questo. (E invece sì, ovviamente è questo e non un altro, perché non ce n’è un altro)
Franz Timmermans, che a Glasgow ricordiamo per le foto della nipotina mostrata ai delegati e al mondo, ha detto che il carbone per ora non deve essere un tabù. In tempo di guerra vale tutto. Dovevamo consegnarlo alla storia, il carbone, era uno dei punti fermi di Glasgow, ma la storia per ora ha pensato altrimenti.
Il carbone torna a essere una comfort zone, anche in Italia, dove si fanno viaggiare le centrali non ancora chiuse a regime. Per altro, importiamo anche carbone dalla Russia, non solo il gas, e nelle stesse percentuali di co-dipendenza: 40 per cento. Anche John Kerry, in quei giorni pendolare iperattivo nei corridoi della Cop26, ha detto che non c’è una contraddizione tra aumentare la produzione di petrolio e gas nel breve termine per rimpiazzare il vuoto energetico a forma di Russia (terzo e secondo esportatore di queste materie prime) e tagliare le emissioni nel lungo termine. Come detto: economia di guerra, energia di guerra.
La ricerca della sicurezza energetica non può però diventare panico energetico, perché quel panico – cioè lo smantellamento di valori e priorità in nome dell’emergenza – non solo ci fa perdere anni preziosi (e sono pochi quelli che abbiamo per intervenire) ma è anche qualcosa che il mondo delle fonti fossili sembra ben felice di poter sfruttare.
Il punto non è quello che accade nel breve termine, come il tentativo dell’Unione europea di rimpiazzare l’80 per cento del gas russo entro la fine dell’anno, puntando sull’inevitabile mix di risparmio energetico, importazioni di gas liquefatto, rafforzamento di altre partnership per comprare gas da paesi che per ora ci sembrano più rassicuranti. (Ne scrive Vanessa Ricciardi qui).
Il punto è quanto il mondo della vecchia economia fossile sfrutterà questa crisi per rinviare il proprio declino, incastrando la transizione dentro infrastrutture, estrazioni, posizionamenti politici. È un problema di economia quanto di narrativa, di racconto: questa crisi energetica è causata dalla co-dipendenza e dalla geografia delle fonti fossili, il paradosso è il tentativo dei loro produttori, raffinatori e commercianti di mostrarsi come garanti della stessa sicurezza energetica che hanno messo a rischio.
Intanto, in tre settimane di guerra o preparazione a essa sono anche usciti tre rapporti che continuano a raccontarci la nostra realtà a lungo termine. Il primo è stato il Global Methane Tracker dell’Agenzia internazionale dell’energia: il metano che Cop26 di Glasgow aveva promesso di tagliare del 30 per cento entro il 2030 non solo continua a crescere ma è anche stato ampiamente sotto-rappresentato negli inventari dei paesi (-70 per cento). Poi è arrivata la seconda parte del sesto rapporto Ipcc, di cui parlavamo settimana scorsa. Infine, ecco il conteggio delle emissioni di CO2 nel 2021 dell’Agenzia internazionale dell’energia.
Nel 2021 c’è stato l’aumento di emissioni di CO2 da parte del settore energetico più alto di sempre. Era l’anno della ripresa post-pandemica, certo, ma la crescita ha compensato, assorbito e superato quanto era stato risparmiato nel 2020 dei lockdown: +6 per cento rispetto al 2020, 2,1 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 in più. Non avevamo mai assistito a un aumento anno su anno così elevato. È questo il punto a cui siamo.
La strada verso i risarcimenti climatici e la cortina di carbonio
Uno dei temi più importanti di Cop26 era stato quello dei risarcimenti climatici, il cosiddetto «loss and damage», cioè la risposta alla domanda: chi pagherà per i danni dell’emergenza clima ai quali non siamo più in grado di adattarci o prepararci.
Su questo fronte il risultato al quale aggrapparsi, a Glasgow, era stata l’apertura di un dialogo tra i due blocchi (definiamoli: responsabili e vittime) e l’ammissione che – in linea di vaghissimo principio – i paesi vulnerabili (cioè, almeno 3,3 miliardi di persone secondo l’ultimo rapporto Ipcc, quasi un essere umano su due) hanno diritto a fondi specifici quando un evento climatico estremo li colpisce e gli rovina l’esistenza. Un diritto in quanto esseri umani e in quanto vittime.
Di loss and damage si è tornati a parlare proprio dopo l’uscita dell’Ipcc, perché su quel documento, e sulle formule, sull’uso delle parole, si è combattuta una battaglia diplomatica che possiamo usare come una cartografia aggiornata del mondo diviso in blocchi climatici, la nuova «cortina di carbonio».
Per farmela spiegare, e capire a che punto siamo, ho fatto una chiacchierata questa settimana con Harjeet Singh, esperto senior di Climate Action Network, uno dei massimi conoscitori della questione. Il loss and damage è un tema che può sembrare remoto, ma è importante perché ha il potenziale di cambiare le relazioni internazionali tra stati e aree del mondo nei prossimi decenni. Accadrà se un paese come il Madagascar, colpito da tre cataclismi in questo inizio di 2022, avrà il diritto di attivare e chiedere fondi per farsi ripagare il futuro da chi glielo ha rotto.
«I paesi ricchi, soprattutto Stati Uniti, Australia, Unione europea, non volevano che nel rapporto Ipcc si usasse una formula troppo forte e specifica, proprio per timore che quel rapporto potesse essere usato come documento ufficiale per avanzare rivendicazioni in futuro». Il blocco responsabile delle emissioni storiche ha ammesso il principio, ma vuole che resti questo: un principio, non un canale di aiuti operativo e spendibile.
Harjeet Singh ci aiuta a mettere in prospettiva il tema: «Quando abbiamo iniziato a comprendere la crisi climatica e a preparare risposte multilaterali, negli anni Novanta, si parlava soprattutto di mitigazione, cioè di ridurre le emissioni, perché pensavamo sarebbe stato sufficiente quello. Poi ci siamo resi conto che non saremmo riusciti a fermare del tutto il riscaldamento globale, e allora abbiamo iniziato a parlare di adattamento: come si preparano città, paesi e comunità al nuovo clima. Cosa si deve costruire, come deve cambiare il nostro rapporto con gli ecosistemi, come ci si attrezza ai disastri futuri? Poi ci siamo resi che non a tutto il cambiamento climatico ci si può adattare. Ci saranno tragedie, danni, morti, perdite di raccolti, distruzione di case, e ci saranno qualunque cosa faremo per evitarlo. E chi se ne occuperà, se la cosa avviene sulla scala di tre miliardi di persone, come dice il rapporto Ipcc?». Ecco: questo è il loss and damage.
Il blocco dei paesi vittime, il G77 con la Cina come partner geopolitico, chiedeva alla Cop26 una «facility», un meccanismo economico concreto per raccogliere fondi per i risarcimenti. «È l’85 per cento dell’umanità che prova a convincere il restante 15 per cento a prendersi le sue responsabilità», anche se in questo scenario il ruolo della Cina, paese responsabile del maggior numero di emissioni nel presente, è se non altro ambiguo.
Il risultato di Glasgow è stata l’istituzione di un «dialogue», quindi un percorso di negoziato. I prossimi tre anni saranno decisivi per capire se si riuscirà a creare una struttura, per valutare la scala dei fondi che servono, con quali priorità e criteri devono essere mobilitati, e a favore di chi. La «facility» finanziaria non dovrà solo raccogliere soldi messi a bilancio dai singoli paesi, ma anche da fondazioni private e organizzazioni umanitarie, una specie di imbuto per far arrivare gli aiuti climatici dove devono arrivare, in tempi umani per rispondere alle catastrofi.
Di quanti soldi parliamo? Tanti. Tantissimi. Potrebbero essere fino a 580 miliardi di dollari all’anno. Una montagna di soldi. Tra gli strumenti innovativi per raccoglierli, ci sono i sussidi dismessi alle fonti fossili o quote sui biglietti dei mezzi di trasporto più inquinanti, come i voli. Tra qualche anno una parte del vostro biglietto aereo potrebbe andare a riparare i danni di cicloni tropicali, ed è anche un buon modo per visualizzare cause ed effetti in modo, come dire, chiaro.
«Il punto è che al momento non sappiamo ancora niente, non hanno voluto nemmeno parlarne, i paesi più ricchi. Poi quando si tratta di far apparire 100 miliardi di euro da un giorno all’altro di spesa per la difesa, ci riescono». Prossimo appuntamento: la Climate change conference di Bonn, giugno 2022. E poi ovviamente Cop27 in Egitto. È un tema che ci accompagnerà.
L’ultima generazione a conoscere l’Amazzonia
La foresta amazzonica continua a scricchiolare, a dare segnali di essere sempre meno in grado di riprendersi da eventi climatici avversi e di essere sempre più vicina al punto di non ritorno, quando l’ecosistema come lo conosciamo cambierà di stato e somiglierà di più a una savana che a una foresta tropicale. E in quel caso l’effetto di feedback – il ritorno in atmosfera del carbonio – potrebbe essere devastante, l’equivalente di sette anni di emissioni che da qui a qualche decennio potrebbero essere restituite nell’atmosfera. Sarebbe un colpo drammatico per qualunque tentativo di mitigazione climatica, ed è la prova che gli ecosistemi più delicati della Terra sono sempre più fragili e instabili.
Le notizie arrivano da una nuova ricerca, che ha analizzato la salute della foresta con informazioni satellitari, in un arco di tempo che va dal 1991 al 2016. Il risultato è che hanno scoperto un crollo della resilienza dell’Amazzonia, cioè della sua capacità di riprendersi dai momenti di stress, soprattutto siccità, incendi e disturbi antropici. Tecnicamente si chiama: rallentamento critico. Se lo stato di stress dura troppo a lungo, diventa più probabile che l’ecosistema cambi stato in modo drastico, drammatico e veloce. Quelli che arrivano da studi come questo, pubblicato il 7 marzo su Nature, sono i primi segnali di allarme di una catastrofe su larga scala.
Attraverso una misura chiamata profondità ottica della vegetazione, i ricercatori hanno osservato che la biomassa forestale non riesce a recuperare le perdite, muoiono più alberi di quelli che riescono a rimpiazzarli, la foresta si indebolisce ciclo dopo ciclo, stress dopo stress, anche perché le piante crescono e si adattano più lentamente rispetto al ritmo dei cambiamenti e le specie resistenti alle siccità non fanno in tempo a sostituire quelle più sensibili. È un effetto a catena che si autoalimenta e che può portarci, più rapidamente di quello che pensiamo, a non avere più una foresta.
Il focus della ricerca era sull’impatto della siccità. La regione dell’Amazzonia è in teoria una delle più umide del mondo, ma lo stress idrico degli ultimi decenni è stato fortissimo: ci sono state tre diverse siccità dal 2000 a oggi. Inoltre, a questo stress bisogna aggiungere anche l’assedio umano nei paesi coperti dalla foresta amazzonica: la conversione continua dei suoli, l’allargamento dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi, la costruzione di strade, il prelievo di legname, gli incendi dolosi.
Non sappiamo quando questi scricchiolii climatici si comporranno per formare il disegno di una crepa che inghiottirà la foresta, ma potrebbe essere una questione di decenni per vedere l’Amazzonia nel suo nuovo stato di savana. Non sarebbe solo una catastrofica perdita di ricchezza e biodiversità (una specie conosciuta su dieci vive in questi 5,5 milioni di chilometri quadrati), ma anche di capacità di assorbire carbonio dall’atmosfera.
Come hanno scritto su The Conversation gli ecologi Simon Willcock, Gregory Cooper, John Dearing, «questa nuova ricerca sottolinea il bisogno di invertire le emissioni globali di gas serra, ridurre la pressione sulla foresta pluviale e proteggere gli habitat per contrastare gli effetti di un clima più secco. Altrimenti rischiamo davvero di essere l’ultima generazione ad aver avuto il privilegio di condividere un pianeta con questi ecosistemi».
La ricerca può essere approfondita qui.
Un prezioso contributo esterno
La settimana scorsa, parlando del rapporto Ipcc, avevo sollevato il tema della difficoltà della scienza sul clima a comunicare lo stato delle cose, l’urgenza e la gravità in un modo che fosse spendibile per un dibattito pubblico. Ho ricevuto una risposta che mi ha colpito molto, da parte di Elena Saggioro, ricercatrice in rischio e strategie di adattamento climatico all’Università di Reading nel Regno Unito. La condivido con tutte e tutti perché è piena di spunti di discussione.
Scienza senza voce – Elena Saggioro
Il problema della poca efficacia della comunicazione nella scienza del clima è innegabile e tragico. L’Ipcc ne è consapevole, e pure tutti noi. Il problema che io noto, però, è su come si pensi di risolverlo: trasformando ogni scienziato in un comunicatore. Io non sono d’accordo, la trovo una strategia fallimentare, perché queste sono due professioni diverse e distinte. In primis, per le competenze che servono: vedi disastro comunicativo di molti dottori/epidemiologi/virologi in tv a spiegare la pandemia. In secondo luogo, perché la vocazione alla ricerca e alla divulgazione non vanno di pari passo, e non credo debbano necessariamente farlo. Da ultimo, per il tempo ed energia che servono per comunicare la propria scienza e per il fatto che nessuno è effettivamente pagato per farlo. L’ultima nota sembra cinica, ma è un fatto che il mondo accademico premia i ricercatori che hanno più pubblicazioni e non più apparizioni radio, presentazioni in scuole o a seminari cittadini. Questo problema di incentivi va corretto per molte ragioni, ma è anche un dato di fatto che non cambierà a breve. Tutto ciò risulta nell’avere pochi ricercatori che dedicano tempo alla divulgazione e a formarsi adeguatamente per farlo, soprattutto tra quelli della vecchia leva. Inoltre i ricercatori spesso insegnano, fanno da supervisori a dottorandi, scrivono perennemente bandi di ricerca per nuovi fondi.. e le ore sono sempre 24 in un giorno.
Può sembrare che io suggerisca che gli scienziati se ne debbano «lavare le mani», ma lungi da me! La mia critica è alla strategia, cioè pensare che siano gli scienziati a dover prendersi tutta la responsabilità di comunicare la loro scienza. Lo possono fare se vogliono e credo che le università dovrebbero incoraggiarlo (già lo fanno molto, almeno qui in UK). Ma per il grosso dell’effort, abbiamo bisogno delle figure professionali che sono formate e pagate per farlo: i giornalisti scientifici. Un esempio che io adoro qui in UK è il team di CarbonBrief.org. L’aiuto degli scienziati è fondamentale nell’aiutare ad interpretare i dati, mettere la loro conoscenza e autorevolezza a supporto del lavoro giornalistico, ma non possono fare due lavori con le risorse di uno.
Concludo dicendo che per molti fare ricerca in questo campo è una vocazione di vita, per dare un contributo sociale in aggiunta all’interesse puramente scientifico. E questo per molti si traduce in comunicazione. Ci sono infatti tantissimi colleghi che sono davvero dei fenomeni di divulgazione: a Reading, ad esempio, mi vengono in mente Ed Hawkins ed Ella Gilbert, ma anche Tamsin Edwards al King’s College London, e mille altri ancora. Tuttavia, per il poco tempo che abbiamo per essere incisivi nel comunicare il cambiamento climatico e fare un salto di qualità e scala nella percezione del problema da parte del pubblico.. abbiamo bisogno di una strategia molto più efficace che il volontariato! Per iniziare, a mio parere servono molti più comunicatori scientifici su giornali e tv. E addetti di comunicazione operativi in tutti i ministeri coinvolti che facciano campagne istituzionali su larga scala.
Finale. Come vi sentite?
Quanti anni avete? Come vi sentite? Ve lo chiedo perché è uscito un sondaggio molto interessante del think tank su energia e clima Ecco. Parla di clima e di pandemia, di come la società italiana percepisce questo momento storico, della risposta sociale e politica alle sfide della crisi climatica. Spoiler: la politica continua a essere assente, afona. Il sondaggio può essere letto nella sua sintesi qui.
C’è però una cosa che mi ha colpito, la ricerca è la fotografia di una generazione a pezzi, sfiancata, esausta. Con poca speranza e allo stesso tempo un grande bisogno di cambiamento, e trovo che questo sia un mix strano e interessante. E poi: la classe di età under 30 è quella che non solo ha meno speranza (la metà di quanta ne abbiano gli over 55), ma anche più ansia (il doppio degli over 55) e più senso di solitudine (anche qui il doppio degli over 55).
Vi sentite così? E ancora: la mancanza di speranza può essere l’innesco di un cambiamento su larga scala, carburante per l’azione?
Siamo arrivati alla fine. Ci sentiamo la settimana prossima. Per dubbi, commenti, spunti, idee, critiche o voglia di parlare di speranza e cambiamento, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicazioni con Domani: lettori@editorialedomani.it.
A presto!
Ferdinando Cotugno
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