A quasi quarant’anni dal referendum che decretò la chiusura delle centrali in Italia, il dibattito sull’energia nucleare è più che mai aperto. Domenica il nuovo presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, è tornato a chiedere il via libera alle centrali, e il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha più volte dichiarato che il governo è al lavoro per riportare il nucleare in Italia.

Il governo punta sugli small modular reactors, il “nucleare di quarta generazione”. A svilupparli è un’azienda italiana, Newcleo, startup fondata nel 2021 dal fisico Stefano Buono. Si tratterebbe di reattori più piccoli rispetto a quelli tradizionali, prodotti in serie e trasportabili, che usano le scorie nucleari per alimentarsi, risolvendo così due problemi in un colpo solo: la produzione di energia e il tema spinoso dello smaltimento delle scorie. In questo modo l’impatto ambientale viene drasticamente ridotto. Il problema è che questa tecnologia non è ancora pronta, e non lo sarà prima della fine della legislatura.

Difficilmente la prima centrale nucleare di quarta generazione vedrà la luce prima del 2030. Per quella data, però, potrebbero essere già pronte le prime centrali a fusione, il cui rendimento energetico è drasticamente superiore, con un impatto ambientale sostanzialmente nullo. Non a caso l’Eni si è portata avanti, stipulando un accordo con gli americani di Commonwealth Fusion System, spin-out del Mit di Boston, e promettendo la prima centrale a fusione entro la fine di questo decennio.

Si tratta di una previsione parecchio ottimistica, ma molto meno distante dalla realtà di quanto potesse sembrare fino a pochi anni fa, quando la fusione sembrava un miraggio.

La fusione in Europa

Nel Vecchio Continente sono presenti vari reattori sperimentali per lo sviluppo della fusione nucleare. Il più famoso di tutti è senza dubbio Iter, inaugurato a Cadarache, nel sud della Francia, nel 2007, e che prevedeva l’accensione del primo tokamak (un reattore “a ciambella” in cui fondere il plasma, riproducendo sostanzialmente l’attività del sole) nel 2019.

Le cose non sono andate secondo i piani, e adesso l’accensione è rimandata a dopo il 2030. Nel frattempo, però, la tecnologia è andata avanti, e nel 2014 il Max Planck Institut für Plasmaphisyk di Monaco di Baviera ha sviluppato il reattore Wendelstein 7-X (W7-X), che ha dato risultati ben più soddisfacenti. Si tratta di uno stellarator, un reattore diverso dal tokamak, che ha lo scopo di confinare il plasma mediante l’uso di campi magnetici, scatenando così la fusione. W7-X è stato completato nel 2022, con un investimento di 1,3 miliardi di euro, e ha raggiunto gli obiettivi prefissati.

In seno al Max Planck Institut è nata Proxima Fusion, startup che ha l’obiettivo di traghettare la fusione nucleare dalla dimensione scientifica a quella commerciale, portando le prime centrali per uso civile e dando un vantaggio competitivo enorme ai primi Paesi che vorranno avvalersene. Tra i fondatori di Proxima ci sono due italiani: Francesco Sciortino (Ceo della società) e Lucio Milanese. Entrambi vengono da un’esperienza di dottorato al Mit di Boston, da cui è nata Commonwealth Fusion System, e contano di realizzare il primo prototipo di centrale a fusione nel 2031, rendendola un’energia alla portata di tutti nella seconda metà del prossimo decennio.

Progressi cinesi

Anche a Pechino si sono accorti ben presto del potenziale della fusione nucleare, aderendo già nel 2006 al consorzio ITER, e il 13 aprile di un anno fa il reattore EAST (Experimental Advanced Superconducting Tokamak), situato a Hefei, ha stabilito un nuovo record, mantenendo un plasma ad alta temperatura confinato per circa sette minuti

All’inizio del 2024 è nata una nuova società, la China Fusion Energy, per promuovere lo sviluppo della tecnologia e accelerare la costruzione di nuovi reattori. I tempi previsti per la costruzione di una prima centrale a fusione in Cina sono più lenti, indicativamente dopo il 2050. Ma il Dragone ha già dimostrato in altri campi la sua capacità di bruciare le tappe, e questo dovrebbe destare preoccupazione alle nostre latitudini.

L’Europa ha l’occasione di sfruttare al meglio un vantaggio che le consentirebbe di uscire dall’angolo geopolitico in cui si trova, tornando a essere decisiva per la sorte degli scenari globali dell’energia.

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