«Vedo che per la prima volta in un decennio non citate più il cambiamento climatico come una minaccia? Abbiamo per caso risolto il problema?».

È stato questo il passaggio più surreale della recente audizione sulle minacce globali alla sicurezza americana. La domanda era del senatore Angus King del Maine, ed era rivolta a Tulsi Gabbard, direttrice della National Intelligence degli Stati Uniti.

Il contesto di questo scambio era l’annuale presentazione al Congresso del rapporto dell’intelligence Usa sulle principali minacce alla sicurezza americana. L’evento è stato ovviamente dominato dalle polemiche sul caso dell’inserimento per errore del direttore di Atlantic Jeffrey Goldberg nella chat Signal sul bombardamento dello Yemen, ma è stato illuminante anche quello che è successo sul clima.

Non una minaccia

È un decennio che nei suoi rapporti annuali l’intelligence americana inserisce quelle climatiche e ambientali tra le principali minacce alla sicurezza degli Stati Uniti. Quindi un ulteriore segnale della dismissione climatica dell’èra Trump è stato il fatto che quest’anno di clima non si parla più come di una minaccia interna o esterna alla sicurezza americana.

Da qui veniva la stupefatta domanda del senatore del Maine Angus King a Tulsi Gabbard: non ne parlate più perché per caso abbiamo risolto il problema? La risposta è stata meno interessante della domanda, la direttrice dell’intelligence ha replicato dicendo: «Ci siamo concentrati in modo molto diretto sulle minacce che giudichiamo più critiche».

Clima? Quale clima?

Gabbard ha negato che ci siano state pressioni o influenze da parte del presidente Trump per eliminare qualsiasi riferimento alla crisi climatica tra le minacce che gli Stati Uniti dovranno affrontare in futuro, ma sicuramente la scelta di non inserire più il clima tra i problemi di sicurezza nazionale, per la prima volta dal 2009, è figlia del nuovo mood politico che sta portando anche alla chiusura di progetti di ricerca, grant o aiuti per il clima. «Nuove priorità», come ha scritto Axios.

Tulsi Gabbard ha anche detto che «per l’intelligence concentrarsi nell’ambiente in cui si opera è un punto di partenza, quello su cui ci siamo focalizzati però sono le minacce più estreme e dirette alla sicurezza nazionale». Forse è in questo slittamento linguistico la prova di cosa sarà il clima nei prossimi anni per gli Stati Uniti: «l’ambiente in cui si opera». Non più un problema o una sfida, o un impegno, ma il contesto in cui accadono le cose, nel quale muoversi con uno spirito quasi «darwinista», come dimostrano le mosse verso la Groenlandia o Panama, luoghi che l’amministrazione ha individuato come critici proprio in virtù del cambiamento climatico, per la perdita di ghiaccio artico (Groenlandia) che apre rotte o libera minerali o per la mancanza di acqua che restringe le rotte commerciali (Panama).

Cambio di rotta

È comunque un cambio di rotta notevole, perché da tempo il Pentagono e l’intelligence avevano messo la crisi climatica in cima all’agenda. Per i militari americani il clima è considerato da anni «un moltiplicatore di minacce», non soltanto per i disastri e gli eventi estremi, ma anche per la sua forza destabilizzatrice nei contesti in cui gli Stati Uniti operano o hanno interessi, per il personale, per le strutture, spesso l’intelligence nei suoi rapporti ha collegato il riscaldamento globale alle questioni migratorie.

Tutto questo livello di percezione, operatività e preparazione all’azione sembra sparito dai radar dell’attuale amministrazione, proprio come i riferimenti al clima sono scomparsi dai siti delle agenzie federali (questo per mandato esplicito di Trump, invece).

Come ha spiegato ad Axios Erin Sikorsky, direttrice del Center for Climate and Security, «Il cambiamento climatico non sparirà semplicemente guardando dall’altra parte, eliminare le minacce climatiche da questo tipo di rapporti creerà angoli ciechi e porterà a errori o a sottovalutazioni, perché gli agenti dell’intelligence ora ricevono il messaggio che il tema è sgradito, che non se ne deve parlare». Più che una scelta politica, una forma di pensiero magico.

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