I presupposti con cui Greenpeace e ReCommon hanno citato Eni sono simili a quelli con cui la California ha appena fatto causa a cinque grandi aziende fossili ed è ormai una verità storica documentata: queste aziende sapevano, eppure hanno fatto finta di nulla
In Italia ci sono in questo momento due cause sui cambiamenti climatici depositate in tribunale. La prima è quella di cui ha già scritto Domani, ReCommon e Greenpeace contro Eni, la seconda è quella denominata “Giudizio Universale” di cui è capofila la ong A Sud, contro lo stato italiano. Presupposti e bersagli diversi, idea di partenza simile: le istituzioni e la principale azienda italiana oil & gas non stanno facendo abbastanza per rallentare le emissioni.
Non è la battaglia di pochi idealisti, anzi: la società civile italiana è arrivata perfino in ritardo, rispetto a una tendenza consolidata. Secondo un rapporto Unep, l'agenzia ambiente dell'Onu, nel mondo ci sono 2180 azioni legali in corso sulla crisi climatica, di ogni scala e ambizione, dirette a tribunali locali, nazionali, internazionali.
La California (se fosse una nazione, la quinta economia al mondo) ha appena chiamato in tribunale cinque grandi aziende fossili - Exxon Mobil, Shell, BP, ConocoPhillips e Chevron - e la loro organizzazione di settore. I presupposti sono simili a quelli scelti da ReCommon e Greenpeace contro Eni e affondano in quella che ormai è considerata una verità dalla storiografia della scienza: i primi ad accorgersi che c'era un cambiamento del clima, che quel cambiamento era grave e che era provocato dalle emissioni di CO2 e altri gas, furono proprio i centri studi delle aziende energetiche.
Eppure queste aziende hanno investito tempo, potere e risorse per sostenere l'opposto. Sul peso morale di queste decisioni decideranno storici e umani del futuro, oggi i tribunali di tutto il mondo devono decidere sulle responsabilità civili.
Diritti umani
Questa settimana, a Strasburgo, comincia uno dei processi più ambiziosi e per certi versi epocali della storia europea. Sei ragazze e ragazzi portoghesi si troveranno di fronte gli oltre ottanta avvocati dei trentadue paesi che hanno citato in giudizio alla Corte europea dei diritti dell'uomo. L'accusa: la lentezza nell'affrontare il riscaldamento globale mette a rischio i loro diritti umani.
Ad Amburgo nove nazioni dei Caraibi e del Pacifico hanno chiesto un parere al Tribunale internazionale del diritto del mare, per capire se il riscaldamento degli oceani e l'innalzamento del loro livello può essere considerato una forma di inquinamento.
Un parere positivo darebbe via a nuove azioni legali. A questo punto si capisce che il punto di questa storia non è tanto Eni, ma la difficoltà delle istituzioni politiche a maneggiare il tema del clima e il bisogno di trovare alternative.
Le cause climatiche sono allo stesso tempo strumenti e sintomo di qualcosa che non va. Le politiche nazionali non riescono a tenere il passo della crisi, gli interventi sono troppo lenti, poco efficaci, pieni di passi indietro.
Il problema è quando
Tutti vogliono la transizione, anche Eni, anche Saudi Aramco, anche il più avido dei petrolieri. Il punto è farla quando finisce il petrolio o farla in tempo per preservare condizioni di vita decenti su questo pianeta. Il punto è se questa transizione avverrà in trenta, cinquanta o cento anni. È un problema lineare: l'aumento di temperature sarà direttamente collegato alla velocità di intervento.
Più rapidamente si tagliano le emissioni, meno tempeste, annate di siccità, incendi, giornate sopra i 40°C avremo. Come vanno le cose lo abbiamo visto bene nei recenti passi indietro sulle politiche climatiche del governo britannico.
È l'approccio del «sì, ma non ora», del «sì, certo, ma sarà il problema di qualcun altro, del prossimo primo ministro, del prossimo amministratore delegato». È politicamente comprensibile, industrialmente un po' meno: petrolio e gas continuano a garantire profitti, ma il picco non è lontano e forse arriverà prima del 2030, secondo l'Agenzia internazionale dell'energia. Poi però c'è la realtà, quella fisica e materiale del mondo, che si fa sentire sempre più spesso, e che richiede logiche di intervento nuove.
Se parlamenti e aziende non ce la fanno, se la collaborazione multinazionale guidata dall'Onu fallisce (e sta fallendo), allora ci si rivolge ai tribunali. Difficile capire quanto potranno essere efficaci: anche lì dove ci sono state vittorie (Olanda, Francia, Germania) non è esattamente cambiato il corso della transizione.
A maggior ragione in Italia, dove la giustizia è se possibile più lenta della decarbonizzazione: è come provare a superare un trattore con una falciatrice, le sentenze rischiano di arrivare a fine decennio, quando - secondo la scienza - dovremmo già aver fatto metà del lavoro sulle emissioni. La loro utilità sarà un'altra: provare a stimolare un dibattito che oggi è fermo sull'ipotetico (il nucleare) o sull'irrilevante (Ultima generazione sono simpatici o no?). Discutere di clima in tribunale è almeno un modo per stanare il paese dalla sua permanente capacità di essere distratto.
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