- Ricaricare le falde acquifere è una delle migliori soluzioni per prevenire la crisi idrica, a costi contenuti e con minor consumo di suolo.
- Nella valle del Cornia in Toscana un progetto costato circa 500mila euro e con un tempo di realizzazione di due anni, ha permesso l’infiltrazione di due milioni di metri cubo l’anno.
- Rudy Rossetto della Scuola Sant’Anna di Pisa: «Sono tecniche diffuse da tempo negli Stati Uniti, Australia e Israele, ma in Italia siamo indietro di vent’anni».
Mancano all’appello almeno 400 millimetri di pioggia. L’ultimo anno idrologico appena concluso, che va da settembre a marzo, non fa altro che confermare la tendenza che stiamo registrando dalla fine del 2021.
La situazione più grave si registra nuovamente in Piemonte, dove secondo l’Arpa è piovuto e nevicato la metà rispetto alla media, mentre negli invasi manca il 45 per cento di acqua e la portata dei fiumi è gravemente deficitaria.
A preoccupare però è anche lo stato di salute delle falde, che vedono scendere il livello in maniera drastica: a Bosco Marengo in provincia di Alessandria si è passati da una media storica, a marzo, di 13,22 metri a 22,96. A Suno (Novara) da 5,6 metri a 110,15, mentre a Scarnafigi (Cuneo) da 5,58 a 7,75. Un segnale di sofferenza, seppur sotterraneo e invisibile.
Stoccare l’acqua nel sottosuolo
In un periodo di crisi idrica come quella attuale le soluzioni a disposizione sono relativamente poche, ovvero grandi invasi da milioni di metri cubi, il riutilizzo delle acque reflue soprattutto per l’agricoltura e, in ultima analisi, la desalinizzazione dell’acqua di mare, costosa sia energeticamente sia per quanto riguarda la realizzazione degli impianti. Ma per il futuro è invece possibile lavorare in maniera preventiva, sfruttando le esistenti falde acquifere. In termini tecnici si parla di ricarica in condizioni controllate, o water banking (banche dell’acqua). Nella pratica si tratta di «una soluzione che si applica sfruttando l’immenso serbatoio che è il sottosuolo», spiega Rudy Rossetto ricercatore del Centro di ricerca produzioni vegetali della Scuola superiore Sant'Anna.
«In molte parti d’Italia è possibile stoccare milioni e milioni di metri cubi di acqua senza andare ad alterare la morfologia o occupare ampie aree di territorio». Realizzare grandi invasi, dighe e laghi artificiali ha un costo, sia in termini economici, che di manutenzione, che appunto di consumo di suolo. Queste sono invece tecniche idrauliche ben note, tanto che i primi manuali sono stati pubblicati in Italia alla fine degli anni Venti del secolo scorso.
Riqualificare i fiumi
Nella valle del Cornia, in Toscana, il fiume omonimo scorre per 50 chilometri, attraversando le province di Pisa, Grosseto e Livorno, e risulta essere l’unica fonte di acqua dell’intera area.
Con il progetto Life Rewat, cofinanziato dalla Commissione europea, è stato possibile invertire la forte situazione di degrado sia della qualità che della quantità delle acque, lavorando proprio sul principio che vede nelle soluzioni basate sulla natura (nature based solution) le migliori tecniche di adattamento alle mutate condizioni climatiche. Ovvero ripristinare le precedenti condizioni di naturalità ha permesso al fiume di ritornare a essere un’importante risorsa per tutta l’area geografica. In questo caso l’acqua va stoccata quando piove, sfruttando tutti i deflussi che vanno naturalmente verso il mare. «Andando a operare sul fiume abbiamo aumentato l'infiltrazione di un milione e mezzo di metri cubi d’acqua», continua Rossetto.
Il sistema non prevede la costruzione di opere ex novo, piuttosto tutta una serie di interventi di tipo ingegneristico, composti da sonde e sensori che comunicano in tempo reale a un cuore tecnologico tutti i parametri dell’acqua del fiume, e che decide come e quando derivarla per essere stoccata nelle vasche di infiltrazione nelle vicinanze: si sfrutta la diversa permeabilità del terreno in modo tale che l’acqua si infiltri e vada a ricaricare le falde sotterranee. In questo modo si abbatte anche la carica batterica e l’eventuale presenza di contaminanti, migliorandone di conseguenza la qualità. «Attualmente stiamo derivando 80 litri al secondo dal fiume Cornia, il che ci permette di arrivare a 2 milioni di metri cubi di acqua infiltrata l’anno», sottolinea Rossetto. E ciò avviene su una porzione di territorio di poco meno di un ettaro, con i costi che si abbattono sensibilmente: se per un invaso della stessa capacità si spendono in media dai 12 ai 20 milioni di euro, «in questo caso spendiamo circa 500mila euro, progettazione compresa, con un tempo di realizzazione di due anni».
Il confronto con le grandi opere
Rispetto alle cosiddette “grandi opere”, infatti, le soluzioni basate sulla natura hanno brevi tempi di realizzazione, bassi costi d’investimento e l’occupazione di aree di limitata estensione, consentendo allo stesso tempo di immagazzinare grandi volumi d’acqua nel sottosuolo, senza ricorrere all’uso di infrastrutture artificiali.
Ma allora perché non in Italia questa tecnica non ha ancora preso piede, e anzi gli impianti riconosciuti sono solo due, di cui uno in Emilia Romagna? Secondo il ricercatore si tratta di una questione culturale, «siamo indietro di 20 anni e manca un vero scambio con gli altri paesi. Manca la massa critica di conoscenze. Queste tecniche sono diffuse da tempo negli Stati Uniti, Australia e Israele, paese in cui piove meno della metà dell’Italia».
Nel frattempo lo scorso 21 marzo, in concomitanza con la Giornata mondiale dell’acqua, è stata inaugurata una nuova vasca d’infiltrazione, in località Forni nel comune di Suvereto in provincia di Livorno, grazie a un finanziamento di circa 100mila euro da parte del dipartimento nazionale di Protezione civile proprio nell’ambito dell’emergenza idrica in corso. Attraverso ulteriori 2.500 metri quadrati di superficie filtrante, si andrà ad incrementare di altri 5mila metri cubi il volume di acqua, che sarà così disponibile per la prossima estate.
© Riproduzione riservata