- «Siamo costretti a subire una crisi che non abbiamo creato e che non dipende da noi», ha detto in assemblea plenaria il delegato del Gabon, Lee White, «per questo motivo io vi chiamo partner e non donatori».
- I rappresentanti di sei essere umani su sette si sono battuti a Glasgow perché i fondi promessi in passato (la prima volta fu nel 2009) arrivino il primo possibile.
- L'eredità di Glasgow è un mondo completamente nuovo, nel quale un'ondata di siccità in Sahel e un ciclone tropicale in un paese insulare devono essere risarciti dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Il patto sul clima di Glasgow è passato, con una vittoria finale dell’India, che ottiene di attenuare ulteriormente il linguaggio sul carbone, che passa da phase out a phase down. Al di là del documento diplomatico finale, negoziato nelle virgole, nelle formule e nei tempi verbali fino allo sfinimento e base del futuro lavoro da fare, la Cop26 di Glasgow ha soprattutto cristallizzato una nuova geografia del mondo, nella quale i confini tra i paesi e i blocchi non sono più tracciati dai sistemi politici, economici o religiosi ma dalle emissioni di CO2. Non solo quelle al presente, ma soprattutto quelle storiche, accumulate nel corso dei decenni e dei secoli della rivoluzione industriale, quando sono state la materia sulla quale è stato edificato il capitalismo europeo e americano.
Il sigillo di questa cartografia aggiornata dei sommersi e dei salvati al tempo della crisi climatica è stata la durissima discussione sulla finanza climatica, che fino all’ultimo ha minacciato il successo della Cop. Nessun tema, nemmeno il phase-out del carbone o i sussidi alle fonti fossili, ha causato fratture quanto il flusso di miliardi che quelli che hanno rotto il mondo a colpi di emissioni hanno il dovere di fornire alle vittime. Soldi che i sommersi chiedono per l'adattamento all'emergenza, che in Africa assorbe già oggi in media il 10 per cento del Pil, e per il «loss and damage», la formula diplomatica che indica formalmente i danni che non si potranno più evitare. La nuova architettura finanziaria globale dovrà gestire le risorse a questi paesi per prepararsi – una parte dei famosi 100 miliardi di dollari all’anno che Barack Obama aveva promesso nel 2009 e che ancora non sono del tutto arrivati -– e per riparare quello che si è rotto, seppellire i morti e riparare i viventi.
Colpa vostra
«Colpa vostra»
Glasgow ha permesso progressi per quanto riguarda il carbone, il petrolio e il gas, la conferenza ha per la prima visualizzato l’elefante nella stanza delle fonti fossili ed è un fatto enorme, ma è stata soprattutto il teatro nel quale a noi è stato presentato il conto della crisi. Per crescere in fretta abbiamo rotto molte cose, e il mondo ora ci chiede di pagare. «Siamo costretti a subire una crisi che non abbiamo creato e che non dipende da noi», ha detto in assemblea plenaria il delegato del Gabon, Lee White, «per questo motivo io vi chiamo partner e non donatori».
I rappresentanti di sei essere umani su sette si sono battuti a Glasgow perché i fondi promessi in passato (la prima volta fu nel 2009) arrivino il primo possibile, perché la quota raddoppi nel prossimo quinquennio, perché l'accesso sia più facile, perché venga creata una struttura formale per erogare le riparazione climatiche su loss and damage.
L'eredità di Glasgow è un mondo completamente nuovo, nel quale un'ondata di siccità in Sahel e un ciclone tropicale in un paese insulare devono essere risarciti dalle istituzioni finanziarie internazionali. È una strada ancora lunga e da definire, la resistenza di Stati Uniti ed Europa per rallentare l'adozione di questo principio è stata strenua. Prima della Cop sembrava un orizzonte diplomatico remoto e astratto, la forza negoziale del blocco G77 (una composita aggregazione che va da Afghanistan a Zimbabwe) supportata dalla Cina lo ha trasformato nel futuro col quale il mondo sviluppato (Europa, Nord America, Giappone) dovrà imparare a confrontarsi.
Mitigare o sopravvivere
La ventiseiesima conferenza sui cambiamenti climatici è stata la più politica da quando l'Onu si occupa di climate change, perché la scienza ormai è patrimonio dell'umanità tutta. Per questo motivo la discussione è stata molto più sulle diseguaglianze che sull'ambiente, sull’usare l'azione per il clima per raddrizzare il mondo proprio durante la tempesta.
È su questa linea che si è giocata l'incomprensione di queste due lunghe settimane. Per il blocco dei paesi sviluppati, la crisi è ancora un problema di mitigazione. La sfida con la quale si erano presentati gli Stati Uniti e l'Unione europea era convincere i grandi paesi in via di sviluppo a seguirli lungo la strada del rallentare le fonti fossili e le emissioni nel lungo e nel medio termine, fino ad azzerarle a metà secolo.
L'immagine simbolo è stata quella del commissario europeo Franz Timmermans, che all'assemblea ha mostrato la foto di sua nipote: per la nostra parte del mondo la catastrofe è qualcosa di futuro da attenuare. Cop26 non ha consegnato nessuna fonte fossile alla storia, come aveva promesso il premier inglese Boris Johnson, ma ci ha dato dei progressi importanti, forse il massimo che potessimo sperare in questo tipo di struttura.
Qualche risultato è stato ottenuto, soprattutto a margine dal processo Onu: gli accordi multilaterali per mettere fine ai sussidi fossili, l'onda di paesi che hanno annunciato l'uscita dal carbone, l'impegno della Cina sul metano. Per i paesi più vulnerabili il clima è invece un guaio che si declina al presente, un rischio di estinzione imminente di popoli, culture e territori, ed è questa la storia che sono venuti in Scozia a raccontare. Il momento che resterà indelebile della Cop26 si è consumato in realtà da un posto a 14mila chilometri da Glasgow, l’arcipelago di Tuvalu, col suo ministro degli esteri che ha rivolto un appello al mondo con le gambe nell’oceano che sale. Sono questi i danni e le perdite che Cop26 ci ha mostrato e prima o poi saremo chiamati a risarcire.
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