Il paradosso del cibo impone una riflessione: se il sistema alimentare che dovrebbe nutrirci distrugge la biodiversità, esaurisce le risorse idriche, cambia il clima, e non riesce comunque a garantire il diritto delle persone a consumare un pasto al giorno, dove si sta sbagliando?

E c’è di più: il Living Planet Report 2024 del Wwf, uscito a ottobre, spiega che i costi nascosti legati alla salute e al degrado ambientale, e connessi al modo in cui si produce il cibo oggi, oscillano tra i 10 e i 15mila miliardi di dollari l’anno. Quando si cerca il bandolo della matassa ci si perde. Gli allevamenti intensivi contribuiscono indisturbati alla crisi climatica, la foga consumistica spinge supermercati e ristoranti a buttare il cibo in eccesso.

Le grandi aziende agricole continuano a usare gli eredi di quegli stessi prodotti chimici che Rachel Carson, nel suo celebre Primavera silenziosa, aveva già tentato di bandire spiegando gli effetti che avevano sulla terra, sugli animali e sulle persone: era il 1962. Se l’autoindulgenza delle generazioni più anziane dice «Si è sempre fatto così», c’è chi non vuole cedere al disfattismo e ha trovato un’alternativa: si chiama agroecologia femminista.

Un collettivo agroecologista

I collettivi contadini non sono una novità nella storia, ma l’agroecologia porta con sé proprio un’altra idea di mondo. Si tratta di «una scienza, un movimento sociale, che promuove pratiche agricole che siano sostenibili da un punto di vista ambientale e socialmente giuste» e che «sfida le dinamiche di potere che risiedono nell’attuale sistema agri-food sfruttatore e oppressivo», sottolinea il saggio Without Feminism There Is No Agroecology della Right to Food and Nutrition.

La cosa più importante da tenere a mente è che l’agroecologia «non mira ad aumentare le opzioni che hanno le donne all’interno dell’economia riconosciuta, ma intende generare una nuova economia dove il lavoro produttivo e riproduttivo sia reso visibile e condiviso». La ragione è che se il sistema dell’agri-food sta mostrando il suo volto peggiore con la crisi climatica, non bastano aggiustamenti parziali, serve un cambio radicale.

Donne rurali nel mondo

Non si parla di ritiri new age in luoghi disabitati per persone annoiate dalla routine, ma di iniziative che partono dal cibo, passano per la riformulazione dei rapporti con la natura, e arrivano fino ai servizi per le famiglie e per la comunità intera.

Fundación entre Mujeres, ad esempio, è nata in Nicaragua nel 1995 e oggi ha l’aspetto di un vero e proprio movimento di mutuo aiuto. Prevede lo «sviluppo economico e sociale delle donne rurali del Dipartimento di Estelì», si legge sul sito ufficiale, attraverso progetti di sensibilizzazione, consulenza tecnica, salute femminile e workshop sulla consapevolezza di genere.

In India, alcune contadine si sono raccolte intorno alla Deccan Development Society, fondata nel 1983, che lavora con associazioni di agricoltrici della regione di Zaheerabad. Affermando l’autonomia di queste associazioni, l’organizzazione lavora per mantenere vive le conoscenze tradizionali legate all’agricoltura e alle sementi. Si tratta di veri e propri presidi di donne che lavorano per sé stesse e in questo modo aiutano anche la propria comunità.

Un nesso inscindibile

Oltre il 43 per cento della forza lavoro agricola nei cosiddetti paesi in via di sviluppo è donna, ma poi ha difficoltà a rivendicare i diritti della terra che spesso sono intitolati ai parenti uomini. Questo fenomeno è una delle ragioni per cui, statisticamente, le donne sono più a rischio di essere affamate e malnutrite.

Come sottolinea la Food and Agriculture Organization (Fao), la «crescente predominanza delle donne nella produzione agricola e la concomitante diminuzione degli uomini nel settore» va «di pari passo con l’aumento del numero di famiglie guidate da donne in tutto il mondo». Il motivo è la cosiddetta femminilizzazione dell’agricoltura, determinata da un movimento che vede gli uomini partire verso la città alla ricerca di lavori più redditizi, e lasciare le terre in mano alle compagne. Con la crisi climatica che colpisce con inclemenza chi vive di agricoltura, ecco che le donne sono le più esposte.

Mentre i grandi della terra si sono incontrati a Baku per la Cop29 sul clima, la scorsa settimana è stato pubblicato l’Indice globale della fame. Guerre e cambiamenti climatici hanno peggiorato l’insicurezza alimentare nel mondo (si stima che in quattro anni si sia aggravata del 26 per cento), ma sono le donne a subirne le conseguenze in modo più grave. Le ragioni di questa ingiustizia hanno a che fare con le norme sociali che le vedono sottorappresentate nei luoghi decisionali, non riconosciute come vittime di discriminazione di genere, e non considerate quando si tratta di redistribuire ricchezza.

In Abruzzo

Le risorse per ripensare il sistema intero – dalla produzione al consumo, alle regole di vivere comune – sono proprio da ricercarsi in collettivi come quelli dell’America latina e dell’Asia meridionale. Ma anche in Italia, nascosta nelle valli degli Appennini, sta nascendo una realtà ispirata ai valori dell’agroecologia femminista.

Qui, al contrario dei paesi in via di sviluppo, non è la femminilizzazione agricola il vettore del cambiamento, ma la grave crisi dello spopolamento delle aree montane e rurali, di borghi e paesini, a vantaggio di un’urbanizzazione che rende le grandi città sempre più invivibili.

La reazione di alcuni giovani è quella di lasciare le metropoli per farsi una vita in luoghi in cui lo sguardo non è costretto tra i palazzi, ma può spaziare su valli aperte, boschi e corsi d’acqua. Per questo nove donne provenienti da tutta Italia hanno deciso di unire le forze e pensare a un nuovo modo di abitare i territori e sostentare le comunità: si chiamano “Donne rurali”.

«Sentivo che stare in città mi provocava malessere», racconta Viola Marcelli, una delle fondatrici dell’associazione: «Quando, piano piano, hanno cominciato ad arrivare tutte queste belle donne, mi sono sentita meno sola: abbiamo approfittato subito e messo a servizio della comunità i nostri interessi».

“Donne rurali” è nata nel 2024, ma già pensa in grande: dagli eventi per la comunità, ai centri estivi per bambini e bambine, ai servizi educativi e dei trasporti, il desiderio è quello di creare «un circolo virtuoso» per chi cerca una vita felice nella natura. Tutto è partito con sua mamma, la presidente dell’associazione, l’agronoma ed esperta di Sviluppo agricolo sostenibile Manuela Cozzi, che ha lasciato Firenze per trasferirsi ad Anversa cinquant’anni fa. Si è innamorata del territorio durante gli studi universitari sulle erbe aromatiche, e poi ha sposato il proprietario dei pascoli dove faceva ricerca.

Una scelta «in controtendenza per l’epoca», dice Marcelli, che però ha messo la prima pietra per l’esperienza del collettivo agroecologista che vi ha fatto seguito.

Le “Donne rurali” sono agronome, allevatrici di animali da pascolo, esperte di diritti di donne e bambine, ex dipendenti di aziende di moda riconvertite in artigiane della lana. Marcelli lavora nel bio-agriturismo di famiglia La porta dei parchi, e con il suo allevamento e l’orto estivo il 95 per cento della materia prima che utilizza è auto-prodotta.

Nel tempo ha provato a tirare su anche un emporio di comunità. Ora, insieme alle sue compagne rurali, spiega che l’obiettivo è «creare servizi per permettere a qualcuno che vorrebbe cambiare vita, di trovare un luogo accogliente dove poter stare». Così “Donne rurali” celebra una vita lenta, un approccio al processo produttivo del cibo che punta alla genuinità degli alimenti e all’autosufficienza, la connessione con le tradizioni artigianali del territorio e l’unione di donne che in mancanza di un’alternativa allo stile di vita contemporaneo ne hanno creata una tutta per loro.

«Siamo venute qui ad Anversa un po’ senza speranza, col pensiero che il mondo là fuori non facesse proprio per noi e che dovessimo assolutamente invertire rotta», spiega Marcelli, «per noi stesse, certo, ma anche per chiunque voglia venire a condividere».

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