La straordinaria aurora di inizio maggio di quest’anno ha dimostrato la potenza che le tempeste solari possono emettere sotto forma di radiazioni, ma talora il Sole arriva a essere molto più violento. I dati statistici dimostrano che circa ogni mille anni la Terra viene colpita da un evento estremo di particelle solari, che potrebbe causare gravi danni allo strato di ozono e aumentare i livelli di radiazioni ultraviolette (UV) sulla superficie del pianeta. Per fortuna la Terra possiede un campo magnetico che forma un guscio protettivo essenziale per la vita, deviando le radiazioni elettriche cariche provenienti dal Sole.

Gli eventi estremi

Nello stato normale, funziona come una gigantesca barra magnetica con linee di campo che salgono da un polo, si attorcigliano e ricadono all’altro polo. Tuttavia, il campo cambia molto nel tempo. Nel secolo scorso, il polo nord magnetico ha vagato attraverso il Canada settentrionale a una velocità di circa 40 chilometri all’anno, e il campo si è indebolito di oltre il 6 per cento, e tale condizione permane ancora oggi. I dati geologici dimostrano che ci sono stati periodi di secoli o millenni in cui il campo geomagnetico è stato molto debole o addirittura del tutto assente.

Possiamo vedere cosa accadrebbe senza il campo magnetico terrestre osservando Marte, che in un remoto passato ha perso il suo campo magnetico globale e, di conseguenza, gran parte della sua atmosfera. A maggio, poco dopo l’aurora, un forte evento di particelle solari colpì il Pianeta rosso. Interruppe il funzionamento della sonda spaziale Mars Odyssey in orbita attorno a esso e causò livelli di radiazione sulla superficie di Marte circa 30 volte superiori a quelli che si riceverebbero durante una radiografia al torace.

L’atmosfera esterna del Sole emette un flusso costante e fluttuante di elettroni e protoni noto come “vento solare”. Tuttavia, la superficie del Sole emette anche sporadicamente esplosioni di energia, per lo più protoni, che sono spesso associati a brillamenti solari. I protoni sono molto più pesanti degli elettroni e trasportano più energia, quindi raggiungono altitudini inferiori nell’atmosfera terrestre, eccitando le molecole di gas nell’aria.

Tuttavia, queste molecole eccitate emettono solo raggi X, invisibili a occhio nudo. Centinaia di deboli eventi di particelle solari si verificano ogni ciclo solare (circa 11 anni), ma gli scienziati hanno trovato tracce di eventi molto più forti nel corso della storia della Terra. Alcuni dei più estremi sono stati migliaia di volte più forti di qualsiasi cosa registrata con strumenti moderni.

Questi eventi estremi di particelle solari si verificano all’incirca ogni pochi millenni. Oltre al loro effetto immediato, gli eventi di particelle solari possono anche dare il via a una catena di reazioni chimiche nell’alta atmosfera che possono impoverire l’ozono. L’ozono assorbe le dannose radiazioni UV solari, che possono danneggiare la vista e anche il Dna (aumentando il rischio di cancro alla pelle), oltre ad avere un impatto sul clima. Ma, se un evento protonico solare si verificasse in un periodo in cui il campo magnetico terrestre è molto debole, il danno da ozono durerebbe anche cinque o sei anni, aumentando i livelli di UV del 25 per cento e incrementando il tasso di danni al Dna indotti dall’energia solare fino al 50 per cento.

Le probabilità

Ora la domanda è d’obbligo: “Quanto è probabile questa combinazione mortale di campo magnetico debole ed eventi estremi di protoni solari?” Data la frequenza con cui si verifica ciascuno di essi, sembra probabile che accadano insieme relativamente spesso. In effetti, questa combinazione di eventi potrebbe spiegare diversi misteriosi eventi accaduti sulla Terra nel passato. Il periodo più recente di campo magnetico debole, incluso uno scambio temporaneo tra i poli nord e sud, iniziò 42mila anni fa e durò circa 1.000 anni. E diversi importanti eventi si sono verificati in quel periodo – anche se non c’è una sicura correlazione con il fenomeno – come la scomparsa degli ultimi Neanderthal in Europa e l’estinzione della megafauna marsupiale, tra cui wombat giganti e canguri in Australia. Questo è un esempio, ma ce ne sono altri. Se ci fosse stata anche una forte attività solare, le conseguenze sarebbero state certamente peggiori. E questo dice dunque quanto sia importante seguire i due fenomeni per anticipare eventuali coincidenze.

Fermare la fusione dei ghiacciai

Negli ultimi decenni, molti ricercatori interessati al modo con cui fermare le conseguenze dei cambiamenti climatici si sono confrontati con il concetto di geoingegneria solare: tra i vari esempi vi sono quelli di realizzare pannelli in orbita terrestre in grado di riflettere la luce del Sole o di raffreddare il pianeta in rapido riscaldamento iniettando particelle nell’atmosfera più alta sempre con lo scopo di riflettere la luce solare.

Tutti sistemi rimasti sulla carta per i costi o per le ricadute che potrebbero avere. Ora, i ricercatori stanno proponendo un nuovo modo per combattere gli effetti del cambiamento climatico che potrebbe rivelarsi ancora più costoso e controverso: la geoingegneria glaciale, progettata per rallentare l’innalzamento del livello del mare. Un libro bianco, pubblicato recentemente da un gruppo di glaciologi che ha condotto una serie di lavori a tal proposito, chiede di dare un impulso alla ricerca che proteggerebbe le vulnerabili calotte glaciali costruendo barriere flessibili attorno a esse o perforandole (vedremo perché) in profondità per rallentarne lo scivolamento in mare. Queste idee, non testate, stanno scatenando una reazione negativa tra i glaciologi, alcuni dei quali sottolineano le conseguenze non solo incredibilmente costose e logisticamente imperfette, ma anche una distrazione dal vero problema che consiste nella riduzione delle emissioni di gas serra.

Il rapporto di Panel on Climate Change

Secondo un rapporto del 2021 dell’Intergovernment Panel on Climate Change, ai ritmi attuali, il riscaldamento globale costringerà le città costiere a confrontarsi con un innalzamento del livello del mare di circa un metro entro il 2100, ma alcuni ricercatori prevedono di peggio, avvertendo che le calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide, che collettivamente immagazzinano abbastanza acqua da causare molti altri metri di innalzamento del livello del mare globale, hanno già superato il punto di non ritorno. Anche se l’umanità riducesse le emissioni e il riscaldamento rallentasse, affermano, queste calotte glaciali potrebbero comunque crollare nei prossimi secoli. I sostenitori della geoingegneria affermano che sarebbe meglio iniziare subito la ricerca su come arginare l’innalzamento del livello del mare alla fonte, piuttosto che spendere miliardi e miliardi di dollari per isolare le città costiere. «A un certo punto devi pensare, “Beh, c’è qualcos’altro che possiamo fare?”», afferma il glaciologo John Moore dell’Università della Lapponia, autore del libro bianco, voluto dall’Università di Chicago (UC).

Un’idea studiata da Moore e trattata nel rapporto è quella di costruire “tende” galleggianti, ancorate al fondale marino oltre il bordo delle piattaforme di ghiaccio e dei ghiacciai, per bloccare le correnti naturali di acqua calda che erodono le calotte glaciali dal basso. Va ricordato infatti che, soprattutto in Antartide, il riscaldamento dell’acqua oceanica per i ghiacciai è una minaccia più grande del riscaldamento dell’aria. I primi progetti prevedevano vele di plastica, ma ora si stanno prendendo in considerazione le fibre naturali come il sisal per evitare problemi di inquinamento. Secondo gli studi di modellazione iniziali, del tutto teorici, le altezze delle tende che si estenderebbero solo in parte dal fondale marino al largo della costa dell’Antartide occidentale in alcune aree potrebbero ridurre la fusione dei ghiacciai di un fattore 10.

Un altro intervento che alcuni scienziati stanno prendendo in considerazione rallenterebbe lo scivolamento delle calotte glaciali creando dei fori alle loro basi così da permettere di pompare fuori acqua e calore. Tali enormi sforzi ingegneristici sarebbero sicuramente tra i più costosi mai intrapresi dall’umanità, in quanto i ricercatori hanno ipotizzato che ci vorrebbero 88 miliardi di dollari per costruire 80 chilometri di cortine attorno ai ghiacciai antartici. Gli interventi richiederebbero anche il sostegno politico internazionale, che stando ad alcuni glaciologi potrebbero avere un ostacolo ancora più grande del prezzo. Twila Moon, glaciologa presso l’US National Snow and Ice Data Center, afferma che tali progetti richiederebbero flotte di rompighiaccio, vaste esigenze di spedizione e personale qualificato per costruire, mantenere e sorvegliare le strutture finali, in condizioni oceaniche che definisce «incredibilmente difficili».

I progetti potrebbero anche comportare conseguenze indesiderate, potenzialmente interrompendo la circolazione oceanica attuale o mettendo in pericolo la fauna selvatica. Inoltre, ci vorrebbero decenni per scoprire se gli interventi funzioneranno realmente. Anche se l’ingegneria e la logistica fossero possibili, «ciò non risponde alla domanda se debbano essere perseguiti», afferma Moon, che si oppone anche agli studi preliminari sui concetti. Il libro bianco tuttavia, riconosce alcuni degli argomenti comuni contro la geoingegneria glaciale, tra cui il fatto che potrebbe disincentivare ulteriormente la riduzione delle emissioni di carbonio. Il rapporto, che comunque sottolinea anche l’importanza delle riduzioni delle emissioni, si sforza di sottolineare che «non sostiene l’intervento a tutti i costi; piuttosto, sostiene la ricerca per stabilire se eventuali interventi siano fattibili». Le voci contro ogni forma di geoingegneria si sollevano comunque da più parti soprattutto perché non è assolutamente possibile realizzare modelli che tengano conto di tutti i fattori e gli impatti che grandi progetti come questo possono avere sull’ambiente.

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