- La lunga strada verso la Cop26 di Glasgow parte dall’accordo di Parigi del 2015, Cop21, che ha rappresentato il massimo momento di entusiasmo nell’azione per il clima.
- Da allora però quella è diventata una storia di promesse non mantenute, di delusioni (la Cop25 di Madrid), di battute di arresto. Nel frattempo le due grandi novità sono state l’ascesa dei movimenti giovanili per il clima e la pandemia.
- Il 2021 è stato un anno contraddittorio, con il ritorno dell’azione per il clima al centro delle politiche globali e diversi annunci radicali, ma anche di rallentamenti e difficoltà.
La conferenza sul clima delle Nazioni unite, in breve Cop26, dovrebbe segnare la strategia di contrasto al riscaldamento globale del prossimo decennio, cioè degli anni decisivi nella lotta contro la crisi climatica. Gli esiti di un summit, quale che sia il tema, non si decidono mai per intero durante l’incontro vero e proprio. Molto avviene nei mesi precedenti, ed è fatto non solo di tavoli diplomatici, ma anche di tutto quanto gli sta attorno: delle decisioni di governi e parlamenti nazionali, degli avvenimenti economici e geopolitici, della presenza – o dell’assenza – di spinte dalle opinioni pubbliche. Cop26 sarà la tappa cruciale di una lunga marcia iniziata tempo fa.
Stabilire il punto di partenza di questa storia non è una scelta facile – la comunità scientifica parla di riscaldamento globale dal 1896 (!) – ma sicuramente non si può prescindere da Cop21, la Conferenza che ha portato agli accordi di Parigi. È lì che nel 2015 un raggiante Laurent Fabius, ministro dell’Ambiente sotto la presidenza Hollande, annuncia l’intesa.
Ancora scottati dal fallimento della Cop15 di Copenaghen, il vertice che sei anni prima si era rivelato il più grande flop della storia dei negoziati per il clima, gli addetti ai lavori accolgono con sollievo i risultati raggiunti nella capitale francese. Per la prima volta gli stati si impegnano a mantenere l’aumento della temperatura sotto i 2° C rispetto all’era pre-industriale, e indicano come limite auspicabile i +1,5° C; per la prima volta si parla, seppure con una formula volutamente ambigua, di raggiungimento delle emissioni nette zero; per la prima volta i governi si impegnano a redigere e presentare piani quinquennali di risposta al riscaldamento globale.
Dopo Parigi
Parigi è il momento di massimo ottimismo. I festeggiamenti non durano però a lungo, e gli anni seguenti si rivelano avari di buone notizie per il clima. Il tema esce dalle agende dei governi e dei media e, nonostante i proclami, numerosi studi certificano come quasi nessuna nazione al mondo, e nessuna delle grandi potenze, sia in linea col rispetto degli obiettivi fissati a Parigi.
Nel 2017 Donald Trump annuncia l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo. Questa stasi dell’azione climatica, accompagnata dall’aumento vertiginoso delle emissioni, dura fino al 2019, quando sulla scena irrompe la nuova ondata di movimenti per il clima. Anticipati da alcuni fenomeni locali come il Sunrise movement americano, in tutto il mondo nascono proteste animate da giovani e giovanissimi uniti da un obiettivo comune: mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto l’1,5° C come promesso a Parigi. È la nascita di Fridays for Future, Extinction Rebellion, Youth for Climate. È il periodo di Greta Thunberg e degli scioperi per il clima.
In Europa centrale e del nord le proteste si traducono nel boom dei Verdi alle elezioni europee del 2019, mentre nel mondo anglosassone il voto dei giovani per il clima spinge la sinistra radicale di Jeremy Corbyn nel Regno Unito, di Bernie Sanders negli Usa e del Sinn Féinn in Irlanda. Sono queste proteste a portare alla promessa della neo presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, di un Green deal per il clima da mille miliardi. Sempre il clima è uno degli argomenti sui quali vince la sua campagna elettorale lo sfidante democratico di Trump, Joe Biden.
L’entusiasmo delle piazze e il parziale cambio di rotta nelle urne occidentali, però, non si riflettono sui negoziati. Dopo un anno di proteste, la Cop25 di Madrid non porta a nessun risultato. Partita sotto cattivi auspici – la presidenza è cilena, ma i tumulti costringono gli organizzatori a spostare l’evento all’ultimo nella capitale spagnola. Le ambizioni sono limitate: l’incontro di fine 2019 aveva come unico obiettivo la definizione dell’articolo 6 degli accordi di Parigi, quello dedicato al mercato del carbonio. Un risultato minimo ma comunque mancato. L’ostruzionismo di Brasile, Australia e Stati Uniti (la cui uscita ufficiale si sarebbe concretizzata solo a fine anno) impedisce qualunque nuovo accordo.
Tutto rimandato a Cop26 dunque. E mentre i delegati tornano a casa, in Cina inizia a diffondersi una pandemia che da lì a qualche mese avrebbe stravolto la politica globale e quindi inevitabilmente anche i negoziati sul clima. Il Covid-19 assorbe l’attenzione, spegne le proteste e mette ogni questione non sanitaria in standby. Le emissioni decrescono a causa dei lockdown, ma la ripresa delle attività porta a un rimbalzo della CO2 già a fine anno, mentre Cop26, prevista per novembre 2020 a Glasgow, viene rimandata.
Lo sprint finale
Si arriva così al 2021. L’anno della seconda e terza ondata, ma anche dei vaccini e dei piani di recupero delle economie. Per il clima è l’anno del ritorno degli Stati Uniti al tavolo negoziale e dei target senza precedenti.
L’Unione europea annuncia l’intenzione di raggiungere le zero emissioni nette, cioè l’equilibrio tra gas serra emessi e gas serra riassorbiti, al 2050. Sulla stessa linea si accodano Usa, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud e altri paesi più piccoli. Cina e Russia (quest’ultima con un annuncio di poche settimane fa) scelgono la strada della neutralità carbonica, relativa alla CO2 ma non necessariamente agli altri gas climalteranti, entro il 2060.
Al Leader’s Climate Summit dell’aprile 2021 grandi paesi hanno ribadito o presentato i loro obiettivi a breve termine. La Cina ha promesso il picco nell’uso del carbone al 2025 e il picco delle emissioni al 2030; il Regno Unito ha stupito tutti promettendo un taglio del 75 per cento al 2035; l’Unione europea – dopo un lungo braccio di ferro tra parlamento e consiglio – ha optato per il 55 per cento al 2030, e gli Stati Uniti hanno deciso di ridurre le proprie emissioni del 50 per cento alla stessa data, ma calcolate rispetto ai livello del 2005 e non del 1990 come gli europei.
Difficile stimare l’effettiva portata di questi annunci. Scelte così lontane nel tempo permettono agli attuali leader, che difficilmente saranno ancora al loro posto nel 2050, di venire meno alle loro responsabilità. E non aiutano le contraddizioni nei piani nazionali: la Cina rimane un giano bifronte dell’azione climatica, prima per installazione di rinnovabili e riforestazione ma anche per crescita nell’utilizzo del carbone.
Gli Stati Uniti portano il peso delle multinazionali fossili, di stati dipendenti dal fracking e di un sistema dei trasporti fondato sul binomio macchina-aereo.
L’Europa, storicamente considerata paladina del clima, vive di una locomotiva tedesca alimentata a carbone e una periferia diffusa, Italia compresa, che costruisce gasdotti e si contende le riserve del Mediterraneo.
Ci sono poi tutti gli altri, da nazioni come Russia o Arabia Saudita che dipendono dalle loro esportazioni di combustibile fossile, ai governi negazionisti di Brasile e Australia, alle decine di paesi poveri colpiti dalla crisi climatica ma senza i mezzi per porvi rimedio. Praticamente nessuno, infine, affronta nei proclami alcuni dei dossier più spinosi della crisi climatica come quelli relativi a consumo di carne e movimentazione delle merci.
Parole, parole, parole
In termini assoluti, insomma, rimane una distanza enorme tra le richieste della comunità scientifica e le azioni dei governi. È però impossibile non notare come queste promesse fossero impensabili solo pochi anni fa e che, timidamente, segni di transizione reale si affaccino: già oggi una regione ricca e industrializzata come la Scozia riesce a usare quasi esclusivamente fonti rinnovabili per la sua produzione elettrica, mentre il carbone prosegue il suo declino tra la Cina che promette di non finanziare più centrali all’estero e il nuovo governo tedesco che vorrebbe abbandonarlo nel 2030 – e non nel 2038 come stabilito dal precedente esecutivo.
Durante la PreCop il presidente della conferenza, il britannico Alok Sharma, è stato chiaro: gli obiettivi di Glasgow saranno l’accordo sul limite dell’1,5° C, l’abbandono del carbone in tempi rapidi e certi e il raggiungimento dei cento miliardi in «aiuti» (prestiti o trasferimenti) per la transizione nel sud globale. Obiettivi minimi, sicuramente insufficienti per qualunque climatologo, eppure non scontati.
A fare pressione, fuori, si annuncia già la presenza di decine di migliaia di manifestanti. Comunque vada a finire Cop26 si è guadagnata una riga nei libri di storia, fosse pure solo per il momento in cui è capitata – all’inizio del decennio cruciale per il clima e nel mezzo della ricostruzione post-pandemia. L’arrivare a cinque edizioni esatte da Parigi, poi, le impone il gravoso compito di effettuare il primo check-up di quei piani quinquennali che ogni nazione ha deciso di presentare – e i target climatici di cui sopra hanno alzato di molto l’asticella delle aspettative.
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