L’uragano Trump ha spazzato via il ciclone Dana e il disastro della regione di Valencia dall’attenzione mediatica e con lui l’analisi di quanto accaduto e delle responsabilità che potesse aiutare a spiegare una reazione così violenta nei confronti del re di Spagna, del primo ministro, del presidente della regione autonoma.

Oramai tutti stiamo diventando consapevoli che le alte temperature del mar Mediterraneo rappresentano un pericolo e possono scatenare fenomeni atmosferici rispetto ai quali dobbiamo inevitabilmente prepararci. Non solo, possono anche ripetersi a distanza di poco tempo come in Emilia con le alluvioni di maggio del 2023 e poi di settembre 2024.

Ma l’anomalia della vicenda spagnola sta in una gestione dell’allerta dei cittadini e poi di impreparazione dei sistemi di soccorso che è sconcertante. Dopo diversi giorni dall’alluvione erano solo volontari a spalare il fango, il sistema dei soccorsi e la ricerca dei dispersi si muovevano a tentoni, l’esercito doveva ancora mettersi in moto mentre i diversi livelli di governo si scambiavano accuse reciproche.

Con tanti difetti che ha il nostro paese, possiamo dirlo, da noi tutto questo non sarebbe successo. Perché il sistema di protezione civile italiano è tra i più organizzati al mondo. Tutto bene dunque? No, perché le nostre capacità si fermano alla gestione dell’emergenza e lo stesso modello è a rischio con l’autonomia regionale differenziata proposta dal governo Meloni.

I rischi dell’autonomia

La sicurezza e l’adattamento climatico dei territori per far fronte a impatti di questa dimensione passa per quattro misure fondamentali. L’allerta dei cittadini per limitare i rischi, l’organizzazione degli aiuti alle persone in difficoltà e della prima sistemazione di chi si trova senza una casa, e poi la ricostruzione post evento da gestire in tempi il più possibile rapidi ma da realizzare con un cambio di approccio, e dunque delle regole, per evitare che si ripetano errori nella localizzazione di edifici e infrastrutture in aree a rischio che sono tra le concause dei danni rilevanti subiti dai territori.

Sui primi due aspetti l’Italia è a posto, grazie a un articolato sistema di protezione civile dove si trova competenza e passione da parte di funzionari e volontari pronti a partire in ogni momento, a una stretta collaborazione con i centri di previsione meteorologica, un codificato sistema di allerta con codici che rispondono a situazioni precise.

Soprattutto un sistema dove le responsabilità di comando sono chiare come la collaborazione tra i diversi livelli e tavoli decisionali, con sale operative e centri di coordinamento dei soccorsi. Per questo la distanza dalla gestione spagnola è impressionante e per tanti versi inspiegabile per gli enormi passi avanti compiuti da quel paese su tanti temi negli ultimi decenni rispetto al nostro.

Ma all’orizzonte si prepara un cambiamento radicale, perché malgrado i limiti posti dalla recente sentenza della Corte costituzionale alla legge Calderoli, è forte la pressione per il trasferimento della protezione civile alle regioni e nella riscrittura che dovrà avvenire nei prossimi mesi i governatori Luca Zaia e Attilio Fontana torneranno alla carica con questa richiesta.

Per cui in alcune parti d’Italia vi potrà essere un diverso modello di gestione delle emergenze, con il rischio che come in Spagna si accentui la conflittualità politica tra i livelli di governo, la discrezionalità nella gestione degli aiuti. Soprattutto, nessuno ha ancora spiegato perché si debba smontare un modello che funziona piuttosto che concentrarsi su quello che non funziona, ossia il post emergenza.

Ricostruire

Il problema del nostro paese è che non riesce a fare passi avanti su come prevenire gli impatti e ricostruire con questi obiettivi i territori dopo che sono passate le alluvioni. Un esempio emblematico è il Piano nazionale di adattamento climatico approvato quasi un anno fa e rimasto nei cassetti.

Nulla è stato fatto, neanche gli interventi a costo zero come l’istituzione dell’Osservatorio che dovrebbe portare avanti, coordinare e monitorare l’attuazione delle azioni previste. In sostanza non è cambiato nulla, i comuni sono lasciati da soli a fare i conti con i periodici disastri e non hanno alcun supporto o risorsa per ripensare una piazza, un fiume, un sottopasso che periodicamente si allagano.

Ultimo esempio Catania la scorsa settimana, dove le strade si sono riempite di acqua esattamente come nel 2020, 2021 e 2023. È possibile continuare con un approccio fatalista? Eppure, oggi sappiamo che il rischio non è uguale dappertutto, ci sono aree e città del paese dove per la morfologia, i venti, la vicinanza al mare questi eventi avverranno più spesso. Basta mettere in fila gli episodi avvenuti negli ultimi dieci anni per costruire una mappa delle priorità, come fa da tempo il portale cittaclima.it.

Poche risorse 

E poi c’è il tema delle risorse. Un dato risulta incredibile nelle statistiche italiane, ed è il rapporto tra spese per la prevenzione e quelle per far fronte ai danni di questi eventi che è di 1 a 4. Se vogliamo rendere il territorio italiano meno fragile dobbiamo cambiare questi numeri. E la legge di Bilancio in discussione è il miglior banco di prova per verificare la credibilità del governo.

Bene, come ha messo in evidenza il Wwf nell’audizione parlamentare per gli «interventi di mitigazione del rischio idrogeologico» il taglio delle risorse è del 41 per cento, mentre si prevede dal 2027 un nuovo fondo ma con stanziamenti inadeguati. Le opposizioni dovrebbero denunciare con forza questo modo di procedere criminale, visto lo scenario che ci attende, e quanto avvenuto con il Piano che doveva negli annunci del governo far cambiare direzione a queste politiche.

Non solo, serve una riforma radicale che affidi alle sette Autorità di bacino distrettuale l’individuazione delle priorità e la responsabilità dell’attuazione. In modo che siano chiari i ruoli, puntando a rafforzare competenze e indipendenza nella individuazione delle priorità sulla base di criteri trasparenti, mentre a ministeri e regioni spetta il compito di individuare i finanziamenti e di imprimere un’accelerazione agli interventi.

Tra l’altro questi sono proprio i progetti che nei prossimi anni l’Unione europea potrebbe considerare fuori dai limiti di bilancio. Il debito buono, per citare Mario Draghi. Ma per arrivare al confronto con Bruxelles con le idee chiare occorre ricostruire una credibilità di cui oggi il nostro paese non dispone anche per le scelte del governo Meloni.

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