È diventato comune leggere che le microplastiche – piccoli pezzetti di plastica, più piccoli di un granello di riso – sono presenti ovunque, dalle profondità marine fino ai poli, ma anche nei terreni agricoli, nel cibo e non ultimo nell’uomo. Ora un nuovo termine sta attirando sempre più l’attenzione delle ricerche: la nanoplastica. Si tratta di particelle di plastica talmente piccole da essere invisibili a occhio nudo.

Cosa sono

Se le microplastiche, solitamente, possiedono una larghezza inferiore a cinque millimetri, le nanoplastiche hanno un diametro compreso tra uno e 1.000 nanometri, dove un nanometro è un milionesimo di millimetro. Per fare un confronto, un capello umano medio ha un diametro di circa 80mila-100mila nanometri. Le nanoplastiche stanno suscitando crescente preoccupazione perché oggi, grazie ai recenti progressi tecnologici, sappiamo che sono ancora più invasive rispetto alle microplastiche.

Le loro dimensioni così piccole fanno sì che possano essere trasportate più facilmente su lunghe distanze, ancor più rispetto alle microplastiche. E questo dà loro modo di avere una maggiore capacità nel penetrare le cellule e i tessuti degli organismi viventi, il che potrebbe portare a effetti tossicologici più gravi rispetto alle microplastiche che non sono in grado di penetrare le cellule.

A conferma delle penetrabilità delle nanoplastiche nei tessuti umani, così spiega Mohan Qin su The Conversation: «Gli studi degli ultimi due anni hanno trovato nanoplastiche nel sangue umano, nelle cellule del fegato e dei polmoni e nei tessuti riproduttivi come la placenta e i testicoli». E sul nostro pianeta sono state trovate nell’aria, nell’acqua di mare, nella neve anche dei poli e nel suolo. E non ultimo è noto che sono state rinvenute sulla cima dell’Everest e nelle profondità delle fosse oceaniche.

Da dove vengono

Le prove che le nanoplastiche siano più diffuse nell’ambiente rispetto alle microplastiche sono sempre più incisive. Una domanda che sorge spontanea è: «Da dove provengono?». Le nanoplastiche vengono create quando prodotti di uso quotidiano come vestiti, imballaggi di alimenti e bevande, arredi per la casa, sacchetti di plastica, giocattoli e articoli da toeletta finiscono per degradarsi.

Le cause possono essere molteplici: da fattori ambientali, come la luce solare o l’usura dovuta ad azioni meccaniche, ma anche durante la cura personale, perché molti prodotti per la pulizia del corpo, come ad esempio sostanze per scrub e shampoo, possono rilasciare nanoplastiche.

Come le particelle di plastica più grandi, le nanoplastiche possono provenire da una varietà di tipi di polimeri (un polimero è una molecola composta da un gran numero di gruppi di molecole), tra cui polietilene, polipropilene, polistirene e cloruro di polivinile. Poiché i prodotti così composti – in pratica sono le diverse plastiche che abbiamo sotto mano – sono ampiamente utilizzati, è difficile evitare la produzione di nanoplastiche nella nostra vita quotidiana.

Poiché le nanoplastiche sono estremamente piccole, sono in grado di trovare una strada per penetrare le cellule e i tessuti. Non è la singola particella di nanoplastica a poter causare problematiche all’organismo, bensì è il loro accumulo che può, potenzialmente, causare effetti biologici avversi.

Il loro destino

Illustrazione di Dario Campagna

Una delle domande che oggi i ricercatori si pongono riguarda il destino delle nanoplastiche nell’ambiente. Ebbene le ricerche non hanno ancora dato una risposta, in quanto non è chiaro se le nanoplastiche si degradano ulteriormente in vari ambienti in particelle più piccole o in polimeri, che sono i loro elementi costitutivi di base, o se rimangono tali per tempi lunghissimi.

Questo tipo di ricerca non è certo semplice perché risulta già estremamente complesso trovare le nanoplastiche. E le strade che i ricercatori stanno mettendo a punto sono ben più d’una e vanno dalle tecniche di spettroscopia Raman alla cromatografia fino alla spettrometria di massa. Questi metodi sono in grado di osservare le forme e analizzare le caratteristiche chimiche delle particelle nanoplastiche. In uno studio del 2024, ricercatori della Columbia University hanno presentato una nuova tecnologia in grado di vedere e contare le nanoplastiche nell’acqua in bottiglia con una precisione davvero molto elevata.

I risultati sono sconcertanti in quanto lo studio ha scoperto che ogni litro di acqua in bottiglia analizzata conteneva più di 100mila particelle di plastica, la maggior parte delle quali erano nanoplastiche. Ovviamente sono necessari ulteriori studi per capire se tutta l’acqua in bottiglia contiene nanoplastiche o se ci sono solo casi specifici. Ma questa nuova tecnica apre la porta a ulteriori ricerche.

Ovviamente a tutti noi interessa la risposta a una domanda fondamentale: «Le nanoplastiche sono pericolose per l’organismo umano?» Alcuni studi hanno concluso che queste particelle potrebbero comportare rischi significativi agli ecosistemi e alla salute umana, e tra questi uno in particolare recentemente ipotizzato che l’assunzione di nanoplastiche potrebbe essere un fattore di rischio per malattie cardiache.

Un’altra preoccupazione è che gli inquinanti chimici, i metalli pesanti e gli agenti patogeni possano attaccarsi alle nanoplastiche e concentrarsi nell’ambiente. Al momento quel che manca agli scienziati per trarre conclusioni importanti circa la tossicità delle nanoplastiche è la quantità di questi materiali presente negli organismi viventi. E questo è importante perché è la concentrazione che può creare i veri problemi.

Il caldo nel Pacifico e la Cina

Quando si porta un disequilibrio all’interno di un ecosistema, non sempre risulta semplice riportarlo in equilibrio senza alterare ulteriori parametri. E forse è quel che sta succedendo al nostro pianeta, quando cerchiamo di porre rimedio a degli errori ambientali fatti in passato senza tener troppo in conto di quel che possono causare tali rimedi. Un esempio è quel che potrebbe essere successo tra Cina e oceano Pacifico.

Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Un gruppo di oceanografi e scienziati planetari dell’Ocean University of China, lavorando con una coppia di colleghi statunitensi e un tedesco, ha scoperto, tramite modelli computerizzati, che le recenti ondate di calore nel Pacifico settentrionale potrebbero essere state causate – almeno in parte – da una grande riduzione degli aerosol emessi dalle fabbriche cinesi. I risultati sono stati esposti in un articolo pubblicato negli Proceedings of the National Academy of Sciences, dove il gruppo descrive come hanno utilizzato diversi modelli climatici e vari altri elementi che hanno permesso loro di trovare una correlazione tra gli aerosol emessi nell’atmosfera dalla Cina e il clima di aree circostanti.

«Negli ultimi dieci anni», spiegano i ricercatori, «l’Oceano Pacifico settentrionale ha vissuto molteplici ondate di caldo, che hanno portato alla moria di pesci, alla fioritura di alghe tossiche e alla scomparsa delle balene. Tali ondate di calore sono state generalmente attribuite al riscaldamento globale, ma a oggi nessuna ricerca è stata in grado di individuare come il riscaldamento globale abbia potuto causare aumenti così improvvisi e variabili in una parte specifica del pianeta». È così che il gruppo di lavoro si è impegnato per trovare una soluzione, e il risultato sostiene che l’inizio delle ondate di calore sembrava essere correlato con gli sforzi riusciti del governo cinese di ridurre le emissioni di aerosol dalle fabbriche del loro paese.

A partire dal 2010 infatti, in Cina le fabbriche e gli impianti di produzione di energia hanno iniziato a ridurre drasticamente le emissioni di aerosol (come il solfato), con il risultato di avere un’aria molto più pulita rispetto agli anni precedenti. È risaputo che gli aerosol possono comportarsi come specchi che fluttuano nell’aria riflettendo il calore del Sole nello spazio.

I ricercatori, partendo dal fatto che precedenti ricerche avevano suggerito che massicce riduzioni di aerosol in un luogo potevano portare al riscaldamento in altri luoghi, si sono chiesti se la riduzione degli aerosol in Cina avesse potuto avere un ruolo nelle ondate di caldo che hanno iniziato a verificarsi nel Pacifico settentrionale. Per scoprire se fosse così, il team ha iniziato a raccogliere dati e poi a inserirli in 12 diversi modelli climatici computerizzati.

Li hanno gestiti in due condizioni: una in cui le emissioni dell’Asia orientale rimanevano invariate negli ultimi decenni e l’altra in cui diminuivano come nella realtà. Hanno scoperto che i modelli senza cali non hanno causato molti cambiamenti altrove, mentre quelli dove gli aerosol diminuivano hanno mostrato ondate di calore che si verificavano proprio nelle parti nord-orientali dell’oceano Pacifico.

I modelli hanno anche mostrato perché: quando meno calore è stato riflesso nello spazio sopra la Cina, è iniziato il riscaldamento delle regioni costiere dell’Asia, con conseguente sviluppo di sistemi ad alta pressione. Ciò a sua volta ha reso più intensi i sistemi di bassa pressione nel Pacifico centrale.

Il tutto ha fatto sì che la “Bassa Aleutina” (un sistema di bassa pressione semipermanente situato vicino alle isole Aleutine nel mare di Bering) diventasse più grande e si spostasse verso sud, indebolendo i venti occidentali che tipicamente raffreddano la superficie del mare. Il risultato sono condizioni più calde sull’oceano Pacifico. Proprio come registrato.

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