- Un’oceanica manifestazione dei movimenti per il clima ha attraversato le vie di Glasgow per il Global day of action for climate justice.
- Il corteo di 100mila persone sotto il diluvio scozzese ha provato a fare qualcosa di più ambizioso che contestare i negoziati della Cop26: rifondare una sinistra radicale globale.
- In testa alla manifestazione ancora una volta c’erano gli ambientalisti africani e i leader indigeni, per affrancarsi dall’accusa di essere un movimento bianco e occidentale e per aggregare tutte le lotte contro la diseguaglianza sotto la bandiera del clima.
Il movimento per il clima ha preso per la seconda volta le strade di Glasgow e ha fatto qualcosa di più ambizioso che provare a mettere pressione sui negoziati dentro la Cop26: quello di ieri è stato un corposo esercizio per la ricostruzione di una sinistra radicale globale fondata sull’ecologia, per raccogliere tutte le lotte contro la diseguaglianza sotto la bandiera della crisi climatica.
L’inclemente giornata di pioggia autunnale non ha scoraggiato l’adesione al Global day of action for climate justice: un flusso di 100mila persone ha sfilato dal punto di raccolta di Kelvingrove Park per le vie del centro, numeri eccezionali per una manifestazione internazionale in tempo di pandemia in una città accogliente ma economicamente inaccessibile durante la conferenza per il clima. È stato un corteo pacifico e carnevalesco, pieno di cosplay climatici vestiti da tritoni, alberi e dinosauri, e poi cani, anziani, bambini, bande di ottoni, con gli attivisti radicali di Extinction Rebellion – di solito abituati bloccare autostrade e aeroporti nel Regno Unito – circondati da uno spesso cordone di polizia.
L’unica leadership
In testa al corteo c’erano però gli ambientalisti africani e i leader delle comunità indigene: se volessimo usare una categoria novecentesca potremmo dire che a Glasgow c’è stata una rinascita del terzomondismo, in una versione evoluta e contemporanea, nella quale i cambiamenti climatici e la lotta contro petrolio, gas e carbone sono sia l’orizzonte sia il collante.
«La storia da raccontare di questa giornata è che il movimento per il clima si è definitivamente decolonizzato, ha smesso di essere un tema bianco e occidentale, è diventato molto più globale della Cop stessa, che è dominata dalla finanza occidentale, mentre noi lì dentro siamo osservatori che non possono osservare, delegati con un badge ma senza alcun potere», spiega con gli occhiali fradici di pioggia Federico Cruz, arrivato dal Messico con la sua comunità nativa per partecipare ai lavori della conferenza sul clima.
Quello che descrive è stato un lungo cammino, passato per l’ascesa di persone come l’ugandese Vanessa Nakate e l’indiana Disha Ravi, ma anche per l’aggregazione con i movimenti per il diritto alla terra del Sud e del Centroamerica, la simpatia per la causa palestinese, la vicinanza con i movimenti contadini indiani.
Anziani leader di nazioni native di Cile, Brasile o Panama erano protetti ieri da cordoni di attivisti come se fossero totem, il sigillo di credibilità per un movimento il cui primo compito è stato liberarsi dall’accusa – nemmeno infondata – di essere figlio di un incrocio di privilegi, borghese ed europeo, ignaro dei veri problemi energetici e sociali del mondo. Jefferson Estela è un delegato arrivato da Manila, Filippine, osserva il corteo stando a margine, mostrando le foto del tifone Haiyan, oltre 6mila morti nel 2013: «Dentro Cop26 le nostre storie di sofferenza non trovano alcun ascolto, la finanza climatica ha fallito, questa manifestazione è l’unica leadership che riconosco»
La rinascita a sinistra
«È molto più importante quello che risuona in queste proteste di quello che succede nelle stanze dei negoziati», riprende la parola Federico Cruz, per il quale l’ascesa di un nuovo movimento globale sarà un risultato molto più rotondo e significativo di qualunque piano per la riduzione delle emissioni. «Stiamo morendo di crescita economica, non ci sarà nessuna transizione ecologica se rimarremo nello stesso modello economico che ha manomesso gli ecosistemi della Terra. Non c’è futuro se non cambiano i consumi di pochi che stanno togliendo il futuro a tutti gli altri».
Quella di Glasgow è una protesta che sta provando a suggerire l’indicibile: il clima è stato manomesso dal capitalismo, non può essere salvato dal capitalismo. È una riposta diretta a una delle tracce più evidenti nella prima settimana di Cop26, il tentativo della finanza privata di giocare il ruolo più importante nella conversione a un’economia pulita e sostenibile, con il meccanismo della trasformazione dei miliardi in triliardi evocato da Mario Draghi, la filantropia forestale di Jeff Bezos, l’alleanza sull’innovazione promossa da Bill Gates, una via fatta di ricerca e incentivi per risolvere lo squilibrio climatico lasciando inalterati quelli politici, economici e sociali. Il popolo di Glasgow invece ha suggerito di guardare oltre e di rovesciare finalmente l’assunto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
Sulla strada della Cop26 si sono alleati con quello che hanno trovato sul campo a Glasgow: indipendentismo (la bandiera della Scozia era di gran lunga quella più rappresentata), proteste dei lavoratori dei trasporti e del personale sanitario. Il Global day of action ha avuto diramazioni in duecento città nel mondo, ha mostrato che esiste un campo di forze, di idee e di consenso che va oltre il clima.
È un movimento dal futuro incerto, sfiduciato sulla democrazia, pieno di contenuti ma povero di rappresentanza, non reclamato da nessuna forza politica, privo di leader (sicuramente non può né desidera esserlo Greta Thunberg, santa laica ma non guida politica) ed erede di una lunga storia di sconfitte. Eppure non si vedeva qualcosa di così solido, ampio e credibile nel campo della sinistra radicale dalle proteste di inizio millennio esplose a Seattle e seppellite dalla polizia italiana a Genova.
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