- Parte il tour ministeriale del gas tra Angola e Congo. Dopo Mozambico, Algeria, Qatar, Egitto e Azerbaijan, sono i nuovi fornitori per affrancarci dalla dipendenza dal gas russo.
- Ognuno di questi paesi è stato impegnato in guerre recenti, potrebbe trovarsi invischiato in guerre future o ha drammatiche situazioni per i diritti umani, ma la strategia del governo italiano è diluire il rischio, sostituire Putin con una manciata di autocrati minori.
- Angola e Congo sono tra i paesi africani dove Eni è più attiva. In Angola opera anche nella provincia di Cabinda, in costante guerra col governo centrale, e a marzo ha creato una joint venture per l’estrazione di fonti fossili con BP, poche settimane dopo il lancio della «verde» Plenitude a Sanremo.
FOTO
(Photo: Business Wire)
I ministri degli Esteri Luigi Di Maio e della Transizione ecologica Cingolani sbarcano in Africa per un nuovo tour del gas tra Angola e Congo, in una missione che ha perso Draghi a causa del Covid. Lo shock russo ci ha fatto risvegliare in una realtà in cui i nostri consumi energetici pagano i costi di una guerra dentro i confini dell'Europa.
La strategia del governo italiano per affrancarci dal gas russo è diversificare i fornitori e diluire il rischio, sostituendo Putin con un mazzo di autocrati più piccoli e meno minacciosi.
Fino a quando il gas sarà così centrale e le rinnovabili così lente, per smettere di sostenere un conflitto rischiamo di finanziarne una decina, a più bassa intensità o più lontani. E c'è una ulteriore complicazione: in molti di questi paesi la presenza e l'influenza russe sono tutt'altro che trascurabili.
I guai dell’Angola
A marzo, dopo aver presentato sul tappeto verde di Sanremo la controllata a base di rinnovabili Plenitude, Eni creava Azule Energy, una joint venture con BP nell'Angola dove oggi atterrano Cingolani e Di Maio.
Era un modo per rafforzare l'estrazione di petrolio e gas lungo le coste di uno dei paesi più poveri e complessi dell'Africa. Stabilità di regime e caos militare qui viaggiano paralleli: dall'indipendenza il paese è governato dal MPLA (Movimento Popular de Libertação de Angola) e ha una cronica guerra civile nella exclave settentrionale di Cabinda.
È uno dei conflitti dimenticati d'Africa, in una delle aree dove Eni è più attiva. Il 2022 sarà un anno di instabilità, ad agosto si vota per rinnovare il mandato del presidente João Lourenço.
Scrive African Arguments: «La strategia del regime è dipingere qualunque espressione di scontento come una minaccia alla stabilità. Come in Russia, dove un dittatore si è messo in una situazione dove aumentare l'aggressività era l'unica opzione plausibile, il regime angolano è allo stesso modo spaventato dalla democrazia e, quindi, pericoloso».
I legami con Mosca sono solidi dai tempi della Guerra fredda e non sono mai stati sciolti, anche perché il partito al potere è sempre lo stesso.
Come ha detto a Deutsche Welle Olivio N'kilumbu, esperto di politica angolana, «Il cordone ombelicale con le élite politiche ed economiche di Mosca non è mai stato tagliato. A livello militare gli istruttori sono ancora tutti russi».
L’eterno preisdente del Congo
Poco più a nord dell'Angola c'è la Repubblica del Congo, seconda tappa nel tour ministeriale del gas. Qui Eni è attiva dalla fine degli anni '60, il Congo Brazzaville è un altro paese africano quasi completamente dipendente dalle esportazioni di combustibili fossili.
La ricchezza di idrocarburi ha causato diseguaglianze profondissime: il 46,5 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 5 per cento dei bambini non arriva al quinto compleanno.
C'è un presidente, Denis Sassou Nguesso, al potere quasi ininterrottamente dalla fine degli anni '70, l'unico stop è stato causato da una violenta guerra civile.
Alle ultime elezioni, il principale candidato d'opposizione è morto il giorno del voto e Internet è stato oscurato. «Le crisi interne in Congo pongono una minaccia enorme alla stabilità di tutta la regione», ha scritto in un rapporto l'Institute of Peace & Security Studies.
L’eldorado del Mozambico
Tra le carte del governo c'è il Mozambico, spesso definito «nuovo eldorado del gas». Il paese è anche uno dei più violenti e instabili d'Africa, l'epicentro della tensione è lo stesso dell'estrazione di petrolio e gas, la provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove sono attive cellule islamiste di al-Shabab e dell'ISIS.
Il conflitto ha fatto quasi duemila morti e più di 650mila profughi interni, uno dei carburanti del malcontento su cui capitalizzano i salafiti sono le licenze di estrazione, una ricchezza che i locali vedono solo passargli sopra la testa, verso la capitale e l'estero. Negli ultimi anni gli scontri armati hanno bloccato 50 miliardi di dollari di investimenti in gas.
Il Mozambico è saldamente nella sfera d'influenza russa, l'esercito locale è affiancato dai mercenari russi di Wagner e - oltre a Total ed Eni - anche Rosneft è attiva nell'estrazione.
Prima l’Algeria
Il primo riflesso italiano dopo l'inizio della guerra è stato il viaggio di Di Maio e dell'amministratore delegato di Eni Descalzi in Algeria. La partnership con la società di stato Sonatrach aggiunge 9 miliardi di metri cubi di gas al mix e fa dell'Algeria il nostro primo fornitore già dal 2023.
È un paese vicino, affidabile e relativamente stabile, eppure sul suolo algerino è in corso una delle crisi croniche più durature d'Africa, quella del Sahara Occidentale.
Il popolo Saharawi è in attesa di un referendum promesso dall'Onu dal 1991 per tornare sul proprio territorio, occupato militarmente dal Marocco.
Centinaia di migliaia di rifugiati Saharawi vivono da decenni in campi profughi sul suolo algerino, bloccati dal muro più lungo e minato al mondo, in attesa di conoscere il proprio destino. Le scamarucce hanno messo Marocco e Algeria in linea di collisione, sotto le rocce del Sahara cuoce il potenziale di una nuova guerra per risolvere una crisi dimenticata.
La polveriera Azerbaijan
Un altro tassello nella diplomazia del gas è l'Azerbaijan, dove un recente viaggio d'affari di Di Maio ha aggiunto 2,3 miliardi di metri cubi di gas al mix.
Il problema è che l'Azerbaijan si trova in una polveriera di confini mobili e altamente militarizzati. L'ultima guerra è stata in piena pandemia, nel 2020, contro la vicina Armenia, per il controllo dell'enclave del Nagorno-Karabakh.
Il conflitto ha causato migliaia di vittime e chiamato in causa le inquiete potenze regionali dell'area: Iran, Turchia e soprattutto Russia, vero arbitro di ogni contesa da queste parti. I tre miliardi di metri cubi da importare dall'Egitto sono diventati un caso politico, per il legame con un paese non certo amico dei diritti umani o dell'Italia.
Qatar e gli altri
Infine, il Qatar, sempre più centrale nella cartografia mondiale, dai colloqui di pace per l'Afghanistan alla Coppa del mondo di calcio. Proprio il mondiale sarà un buon modo per ricordarsi il disastro diritti umani nel paese. Nella seconda metà del decennio scorso il Qatar è stato anche protagonista della guerra fredda del Golfo, con un embargo durissimo subito da Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto per le accuse di sostegno al terrorismo.
L'ultimo pezzo del puzzle sono gli Stati Uniti, dai quali importeremo sempre più gas liquefatto, prodotto da fracking e importato attraverso navi metaniere e rigassificazione, un processo climaticamente due volte e mezzo più nocivo di quello via gasdotto. Per la transizione, secondo il governo, c'è tempo.
© Riproduzione riservata