Per trasformare in realtà i “sogni di gloria” con la realizzazione dell’ipermercato di Villabate, Antonio e Nicola Mandalà devono “fare politica”. Se pur non impegnandosi in prima persona, devono riuscire a condizionarla con uomini di fiducia nei posti chiave delle istituzioni. Campanella è uno di questi. E come lui il sindaco Carandino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.
Finanziamenti, decisioni sulle opere da realizzare, varianti ai piani regolatori, formazione delle commissioni giudicatrici, identità di coloro che decidono, disponibilità di informazioni tempestive sull’andamento delle procedure. Le tangenti a funzionari e consiglieri comunali di maggioranza e opposizione possono non essere sufficienti. Gli accordi con gli imprenditori non bastano.
Per trasformare in realtà i “sogni di gloria” con la realizzazione dell’ipermercato di Villabate, Antonio e Nicola Mandalà devono “fare politica”. Se pur non impegnandosi in prima persona, devono riuscire a condizionarla con uomini di fiducia nei posti chiave delle istituzioni. Campanella è uno di questi. E come lui il sindaco Carandino.
Ma il sostegno a quelle carriere politiche richiede mobilitazione del consenso e controllo dei voti. Sono risorse indispensabili per il rafforzamento e l’espansione di Cosa Nostra. Sono risorse presenti da tempo nel suo patrimonio genetico.
La Sicilia è la metafora del sud dell’Italia. Il tessuto produttivo fragile, da sempre, la vincola alla politica degli incentivi e dalla gestione dei flussi di finanziamento pubblico. Uno degli obiettivi strategici di Cosa Nostra, a partire dagli anni settanta, consiste nella progressiva conquista di una quota privilegiata nel mercato della spesa e della assistenza pubblica nel Mezzogiorno.
Nei primi venti anni della Repubblica, come osservano ripetutamente storici e sociologi, quel mercato era stato gelosamente monopolizzato dal potere politico.
Le sfere di influenza dei patroni clientelari e le sfere di influenza dei leader mafiosi erano distinte.
Le prime superavano di gran lunga le seconde per la qualità e l’ampiezza delle prestazioni fornite.
Era nelle mani del politici locali la distribuzione dei sussidi, delle pensioni, dei posti di lavoro nel settore pubblico e, più in generale, la gestione della cosiddetta economia assistita del Mezzogiorno.
Con l’affermarsi della spiccata vocazione imprenditoriale delle cosche, la situazione muta sensibilmente. Progressivamente si riduce la distanza fra reticoli politico-clientelari e reticoli del potere mafioso, fino al punto che quelle due realtà trovano significativi punti di convergenza, come ormai dimostrano tante pagine della giustizia penale italiana.
È una situazione che dipende da diversi fattori, ma occorre segnalarne uno in particolare. Cosa Nostra può contare su seguiti clientelari autonomi e su autonome basi di potere. Il controllo del territorio e l’infiltrazione capillare nelle attività economiche ha un grande peso.
Lo si è visto con la gestione delle estorsioni. Ad un certo punto al “Gruppo Migliore” Nino Rotolo non chiede somme di danaro ma posti di lavoro per “piazzare” dei clienti. In tanti altri casi la “messa a posto” consiste nella elargizione di favori solo indiretti per la cosca. La prestazione a carico dell’estorto il boss la destina effettivamente ad un terzo “cliente”. E, d’altronde, con la “protezione attiva” derivante dal sistema spartitorio degli appalti espresso dal “metodo del tavolino”, Riina e Provenzano non si limitano a rafforzare le imprese mafiose di loro diretta
emanazione, altrimenti non competitive, ma agganciano anche altre imprese, esterne alla organizzazione, a cui impongono assunzioni o chiedono favori per terze persone. Quelle assunzioni e quei favori si traducono in forme di consenso per l’associazione e, quindi, in potenziali forme di consenso elettorale.
Negli anni ottanta, Cosa Nostra reinveste nel commercio o nel settore turistico profitti ottenuti illegalmente; e dispone di ramificate catene di produzione e distribuzione degli stupefacenti sul mercato italiano. Tutte queste attività sono delle macchine economiche che possono essere facilmente trasformate in “macchine elettorali”, strumenti di pressione politica molto rilevanti. Se, a quanto detto sinora, si aggiunge l’ulteriore elemento costituito dalla crescita sia del numero complessivo che delle dimensioni medie delle stesse famiglia-impresa mafiosa, si è in grado di avere un quadro realistico delle possibilità di influenza politica delle cosche.
Ebbene, in una situazione di legalità debole e di dura competizione politica, con riguardo alla quale non contano più gli ideali o i progetti di miglioramento delle condizioni della collettività ma solo i “favori” che possono essere elargiti, l’agire mafioso risulta avvantaggiato. Agli occhi di tanti cittadini è credibile e va appoggiato chi “riesce a mantenere le promesse”, chi “riesce a garantire sul serio” una pensione, un posto, un sussidio, un contributo.
La rete di conoscenze e di personaggi che non possono sottrarsi alle richieste dei boss, la capacità di minacciare e infliggere sanzioni, la possibilità di risolvere direttamente problemi pratici ai singoli costituiscono evidenti vantaggi della mafia rispetto ai redistributori clientelari classici. Quasi nessuno di questi, in certe realtà del meridione d’Italia, dispone oggi del potere e della determinazione necessari per imporre la propria volontà su un apparato pubblico sempre più atomizzato.
Sin dagli anni ottanta, i capi, Riina e Provenzano, sono consapevoli delle potenzialità politiche di Cosa Nostra. Sanno di poter decidere le sorti di molti candidati orientando le preferenze, sanno di potersi permettere patti di scambio con politici di ogni levatura e persino di poter costruire candidature di persone che fanno parte del loro popolo.
Lo sanno e attribuiscono grande importanza alla capacità di mobilitazione elettorale della organizzazione che comandano. È noto che nella seconda metà degli anni ottanta, crescendo la disillusione nei confronti della Democrazia Cristiana, Cosa Nostra cerca un nuovo veicolo politico per i suoi interessi.
Alle elezioni politiche del 1987, delle avances vennero fatte in direzione del Partito Socialista, portatore di principi garantistici che indirettamente favorivano i piani della organizzazione. E quando nel 1992 si conclude con pesanti condanne il primo maxiprocesso a Cosa Nostra, si comincia a coltivare nell’ambito della organizzazione il progetto di creazione di un movimento separatista dal nome “Sicilia Libera, con coinvolgimento diretto di uomini interni al crimine organizzato, come riferito dal collaboratore di giustizia Tullio Cannella, molto vicino a Leoluca
Bagarella. Ai capi non sfugge che questo progetto è ambizioso ma di difficile realizzazione. Per questo si lasciano aperta un’altra possibilità: cercare rapporti e offrire sostegno a nuove forze politiche nazionali che stanno nascendo sulle rovine del vecchio sistema dei partiti, come suggerisce il boss Bernardo Provenzano.
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