Sfruttamento della manodopera, speculazione finanziaria e minacce alla conservazione dei territori. Sono i problemi che stanno dietro alla produzione del cioccolato e dello zucchero che compriamo. E che ora rischiano di arrivare sempre meno in Ue, soprattutto a causa della siccità
Dolci amari. Una tavoletta di cioccolato o una bustina di zucchero di canna che spesso costano pochi euro al supermercato hanno una storia di migliaia di chilometri, fatta spesso di sfruttamento, di pratiche nocive per l’ambiente, di affari per pochi e di miseria per tanti, forse troppi. Un percorso che tocca i consumatori in modo diretto: infatti, come si legge in uno studio, pubblicato su Nature Communications nel giugno 2021, «le forniture all’Ue di alcune colture potrebbero essere interrotte a causa dell’aumento della siccità in altre parti del mondo. Caffè, cacao, canna da zucchero, palma da olio e soia sono i prodotti importati più vulnerabili al clima».
Sono queste le sfide che il commercio equosolidale cerca di fronteggiare, con una serie di progetti e iniziative nei paesi di maggiore produzione e con un’opera di sensibilizzazione tra i consumatori. «Sul cacao siamo più avanti, mentre ancora c’è tanto da fare per quanto riguarda lo zucchero, perché non sono ancora conosciuti i problemi di sfruttamento ambientale e sociale legati alla sua filiera. Io però sono fiducioso: vedo un terreno sempre più fertile per chi cerca di far valere catene rispettose del produttore», sottolinea Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato.
Sfruttamento di bambini
I quadratini di cioccolato che mangiamo uno dopo l’altro, attivando i neurotrasmettitori che ci fanno stare bene, sono un esempio perfetto. L’Italia consuma circa due chilogrammi all’anno pro capite di cioccolato, ma il vero giro d’affari è quello legato alla produzione, che nel 2021 ha riguardato 377.858 tonnellate di prodotti finiti per un valore pari a 5.130,5 milioni di euro.
I paesi dai quali proviene la maggior parte della materia prima, che l’Europa poi lavora e vende, sono soprattutto quelli della fascia equatoriale, come Ghana, Costa d’Avorio, Benin e Togo. «In questi stati ci sono soprattutto piccoli produttori, che hanno spesso solo un ettaro: qui si raccolgono le fave di cacao, si fermentano, si essiccano e poi si raccolgono in sacchi che vengono venduti sul mercato internazionale. Sono processi a ridottissimo valore aggiunto», dice Federica Leonarduzzi che coordina i progetti di Altromercato di cooperazione tecnica legati alla filiera delle materie prime. Ma chi decide il prezzo dei sacchi di fave? «È la Borsa di Londra che lo determina, in modo assolutamente lontano da chi produce», sottolinea Leonarduzzi. Una dinamica che si ritrova anche per altre commodities alimentari: «A controllare il prezzo sono istituzioni private con fondi di investimento, come BlackRock, che fissano il prezzo.
Non ci sono quotazioni come l’oro ma variano a seconda delle partite, a cui ovviamente si aggiunge una componente speculativa molto alta, che spesso può arrivare anche a dieci volte gli scambi», dichiara Franceschini.
A ciò si aggiungono anche questioni ambientali: «Tantissima foresta originale è stata sradicata per le nuove piantagioni di cacao, visto che l’export è una delle prime voci economiche. Il cambiamento climatico, poi, sta portando a riconsiderare l’agricoltura: sempre più appezzamenti passano dalla monocoltura ad aggiungere piantine di peperoncino e pepe di Cayenna, che rendono la parcella molto più resistente», dice Leonarduzzi. La questione principale, però, è la manodopera presente, dove spesso lavorano minori in condizioni disumane.
Un’indagine svolta in Costa d’Avorio e Ghana dal Centro nazionale di ricerca Norc dell’Università di Chicago ha svelato che circa 1,56 milioni di bambini lavorano nella produzione di cacao solo in queste due nazioni dell’Africa occidentale.
«Nei paesi più poveri dell’Africa i bambini sono costretti ad aiutare nelle fattorie e a svolgere lavori con strumenti pericolosi, come il machete, severamente condannati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. A ciò si aggiunge l’utilizzo di sostanze chimiche pericolose, il sollevamento di carichi pesanti e l’assenza di tutele sanitarie e di un percorso scolastico per i bambini. Inoltre, in Ghana e soprattutto in Costa d’Avorio, alcuni minori vengono venduti dai paesi più poveri, come Burkina Faso e Mali, e tenuti come schiavi», dichiara Ayn Riggs, direttrice della ong americana Free Slave Chocolate, che si occupa di sensibilizzare i consumatori sui problemi legati alla filiera del cacao.
Per questo Altromercato lavora in sette paesi, tra Africa e sud America, dove sostiene una filiera del cacao profondamente diversa da quella tradizionale: «Nella nostra visione equosolidale non solo concordiamo un prezzo fisso con l’agricoltore, oltre ad un acquisto prolungato nel tempo, ma lo aiutiamo anche nella sua parcella, permettendogli di sostituire le piantine più vecchie. Lavoriamo con cooperative, dove partecipano tutti i produttori; cerchiamo di favorire l’emersione della leadership femminile e aiutiamo a rendere l’attività agricola attrattiva per le giovani generazioni», sottolinea Leonarduzzi.
Problemi ambientali
Una storia simile è quella della canna da zucchero, coltura tipica delle aree equatoriali e tropicali, dove c’è molta luce solare e abbondante acqua.
Il problema è la sua raccolta, che prevede un procedimento molto pericoloso. «Il sistema tradizionale prevede di dar fuoco in modo controllato alle piantagioni per risparmiare sui costi, con i lavoratori che tagliano le canne quando ancora questi fuochi non sono spenti. In questo modo si taglia con il machete alla base della canna in modo più semplice, togliendo allo stesso tempo anche tutte le foglie presenti.
Questo, però, porta non solo ad un innalzamento della temperatura corporea ma anche all’inalazione di fumi nocivi: per questo si è diffusa tantissimo una malattia, la CDKu, che porta i reni a non funzionare più», racconta Beatrice De Blasi, portavoce di Fondazione Altromercato. Come per il cacao anche in questo caso lo sfruttamento è all’ordine del giorno: «Il lavoro è spesso massacrante, si lavora in regime di sovrapproduzione e si viene pagati a cottimo: in questo modo il latifondista mette le famiglie l’una contro l’altra, con conseguente indebitamento di chi non ce la fa e perdita della terra da parte dei contadini», dice Franceschini. Eppure, non mancano gli esempi positivi, come nel caso di Manduvirà, in Paraguay, dove un gruppo di agricoltori ebbe il coraggio di ribellarsi alla dittatura di Alfredo Stroessner, al potere tra il 1954 e il 1989, e diede vita a una cooperativa agro-industriale della canna da zucchero.
Oggi Manduvirà rappresenta un esempio virtuoso non solo dal punto di vista lavorativo ma anche ambientale, visto che creano energia pulita utilizzando i resti della spremitura delle canne come combustibile. «Il loro esempio è molto interessante, non solo per la filiera corta ma anche per il potere contrattuale in mano agli agricoltori, che solitamente non hanno. Sono stati i primi fuori dall’Europa e inoltre sono anche stati in grado di vendere a realtà non ecosolidali», sottolinea il presidente di Altromercato.
Un approccio molto simile è quello che si ritrova nella filiera dello zucchero equosolidale. «Lavoriamo nelle Filippine e in Ecuador: i nostri progetti non solo non prevedono roghi ma lasciamo piena autonomia ai lavoratori di gestirsi e in più ci sono anche le donne. Certo, non mancano i problemi. Nel primo caso, infatti, i contadini impegnati nella produzione dello zucchero Moscovado, uno dei più commercializzati anche fuori dai circuiti equosolidali, hanno faticato ad affrancarsi da quel sistema iniquo che avvantaggia sistematicamente il proprietario terriero e che spesso ha portato alla sparizione di diverse persone. Nel secondo, invece, dove viene prodotta la varietà Dulcita della canna da zucchero, si assiste allo scontro tra il governo nazionale e quello locale per l’estrazione mineraria nella riserva dove lavorano i contadini. A rischio non c’è solo la canna da zucchero ma anche le vicine fonti d’acqua che riforniscono la capitale, Quito», dice De Blasi.
Numerosi anche i progetti con alcune aziende e marchi sul modo di gestire le filiere stesse, che evita qualsivoglia tipo di brandwashing. «Collaboriamo con diverse aziende per migliorare la catena di approvvigionamento di prodotti come zucchero e cacao. Con Esselunga lavoriamo sulla produzione del cacao in Togo, mentre per lo zucchero collaboriamo con Ferrero a un progetto a Mauritius», sottolinea Franceschini, che rimarca come anche la filiera dello zucchero sia soggetta a una finanziarizzazione del mercato.
«Il meccanismo che li regola è molto diverso da quello economico dove si incontrano domanda e offerta. Assistiamo a veri e propri paradossi, come bassa domanda e prezzi alti e viceversa, che non dipendono da fattori esogeni ma dai futures, prodotti finanziari dove gli investitori scommettono come andrà il mercato con uno o due anni di anticipo, tutelandosi dalle fluttuazioni di domanda e offerta. Un meccanismo nel quale sia i produttori che i consumatori sono vittime impotenti».
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