Guardare al peggio per sentirsi meglio non è mai l’atteggiamento più proficuo per cercare di progredire. Tuttavia relativamente ai dati di inattività in Italia, anche volendo, guardare in dietro è impossibile poiché siamo l’ultimo paese Ocse in quanto a sedentarietà dei bambini.

Un dato agghiacciante che non può essere mitigato dai grandi successi degli atleti d’elite, frutto di investimenti mirati piuttosto che naturale conseguenza di una società che ha nello sport un diritto di cittadinanza con ricadute positive del suo valore pedagogico, culturale e di sviluppo del benessere psicofisico, come riconosciuto dall’articolo 33 della Costituzione.

No, nel nostro paese si continua a perseverare nella dicotomia tra alto livello e sport di base come fossero compartimenti stagni nonostante così non sia affatto, anzi. Quando infatti si affronta il tema della relazione positiva tra sport per tutti e sport di alto livello, gli esperti chiamano in causa due principali riferimenti scientifici: il modello evolutivo della partecipazione sportiva (Dmsp) di Jean Cotè e quello dello sviluppo a lungo termine dell’atleta (Ltad) elaborato da Istvan Balyi.

Il primo si focalizza sull’interazione delle diverse dimensioni della pratica sportiva (gioco, avviamento allo sport, agonismo, stile di vita) e dimostra come la partecipazione ad attività ludico-motorie con carattere multidisciplinare tra i 6 e i 12 anni, offra esperienze di crescita fisica e cognitiva fondamentali per un futuro stile di vita sano e attivo di tutti e, al tempo stesso, rappresenti la migliore base per lo sviluppo del talento sportivo, per chi ce l’ha e lo vuole esplorare. E su quest’ultimo aspetto si inserisce il secondo modello che sviluppa le tappe per portare alla migliore capacità prestativa chi intraprende il percorso agonistico.

Il modello di Cotè è stato preso a riferimento per le politiche sportive di molti Paesi, il modello di Balyi è stato affinato e testato attraverso la collaborazione con vari enti e federazioni sportive internazionali.

La cosa interessante è che entrambi condividono la base ovvero quel periodo fino ai 12 anni di pratica multisportiva in forma ludica e gradualmente strutturata (nei rari sport a specializzazione precoce queste fasi non si saltano ma si anticipano).

L’esempio norvegese

Affinché tutto questo non sembri una lontana utopia, tra i tanti esempi positivi di realtà che hanno implementato le tesi teorizzate da questi modelli, ce n’è una in particolare che rappresenta la perfetta applicazione di entrambi. Si chiama Norvegia.

Ha cinque milioni e mezzo di abitanti, un clima relativamente mite grazie alla corrente del Golfo che ne mitiga le coste atlantiche e, essendo il paese più settentrionale d’Europa, la luce e la lunghezza delle giornate variano e condizionano notevolmente la quotidianità a seconda della latitudine.

La natura è potente e i norvegesi la vivono in ogni stagione quindi anche durante le lunghe notti. L’approccio all’ambiente come luogo di divertimento ma anche di apprendimento, sperimentazione, crescita è un concetto profondamente radicato nella cultura norvegese ed è chiamato semplicemente friluftsliv o vita all’aria aperta. Ci sono scialpinisti, sciatori di fondo, corridori, ciclisti che fanno le notturne al chiaro di luna o delle luci frontali così come le scuole prevedono momenti didattici all’aperto usando il territorio come aula interattiva di educazione motoria e di insegnamenti trasversali.

Il movimento si impara fin da piccoli in tutte le forme, in tutte le condizioni ambientali e meteorologiche come presupposto per diventare persone indipendenti, resistenti, aperte, rispettose, solidali. La scuola prevede l’educazione fisica curricolare ma interagisce con le società sportive per un’ampia offerta extracurricolare.

La Norvegia sportiva è una realtà dove le pratiche sono alimentate da evidenze scientifiche. Ma è un circolo virtuoso perché le evidenze scientifiche vengono aggiornate dal monitoraggio delle pratiche al fine di intervenire con eventuali correttivi. Qui dal 1987 esiste e viene applicata la Carta de I diritti dei bambini nello sport.

Con straordinaria lungimiranza e sensibilità, ancora prima che (1989) la Convenzione sui Diritti del fanciullo dell’Onu includesse principi generali applicabili anche allo sport, la Norvegia aveva redatto la sua Carta.

Un documento pionieristico prodotto dall’Idrettforbund (equivalente al nostro Coni) in collaborazione con una commissione di esperti in pedagogia, psicologia e medicina dello sport; dodici pagine straordinariamente efficaci, sintetiche, senza fronzoli in perfetto e essenziale stile nordico.

Tutto ruota attorno al principio che i bambini dovrebbero vivere un'esperienza positiva ogni volta che partecipano ad un’attività sportiva, sentirsi al sicuro, voler provare cose nuove e non avere paura di commettere errori. Tra i fondamenti c’è la necessità di incoraggiare i ragazzi a praticare il maggior numero possibile di discipline. Non ci sono campionati nazionali e tanto meno internazionali fino ai 12 anni.

Per i più piccoli le gare non devono avere classifiche e le premiazioni, se previste, devono riconoscere un premio uguale per tutti.

Ricorrono disposizioni che sottolineano la grande responsabilità e competenza come prerequisito di chi lavora nello sport coi bambini, che enfatizzano l’importanza di informare e formare le famiglie, che invitano alla gratuità dei servizi e all’organizzazione di attività per i genitori nello stesso momento in cui si organizzano per i figli. Le varie federazioni devono vigilare sui club e sanzionarli in caso di inadempienze. Una lettura che scalda il cuore…

Modello vincente e democratico

La Norvegia è la nazione che ha vinto più medaglie nella storia dei Giochi olimpici invernali. È arrivata prima nelle ultime due edizioni; ha anche i due atleti di sport invernali individuali più medagliati di sempre al mondo. Ma non si pensi solo all’inverno perché la Norvegia è fortissima anche negli sport estivi sia individuali che di squadra. E tutto questo senza iniziare a specializzare prima dei 13 anni e talvolta nemmeno dopo.

Karsten Warholm, campione olimpico e recordman mondiale dei 400 ostacoli ad esempio, ha fatto molte discipline e poi fino ai 20 anni ha praticato il decathlon.

In Italia, a 14 anni, si registra il fenomeno dell’abbandono causato dalla specializzazione precoce mentre in Norvegia è l’età in cui si inizia a fare sul serio.

A fare la differenza è anche l’allocazione delle risorse. Il vertice sportivo norvegese ha deciso di non investire nelle discipline più costose e in generale adotta un approccio più democratico per favorire opportunità a tutti piuttosto che concedere privilegi a pochi.

Così mentre noi abbiamo il 94,5 per cento dei bambini sedentari, in Norvegia hanno il 93 per cento di bambini che partecipa ad attività sportive organizzate.

In quanto al divario di genere non sorprende che il Global gender gup index 2024 collochi la Norvegia al secondo posto di una classifica mondiale in cui l’Italia occupa l’87esimo.

Nello sport le posizioni di leadership occupate da donne sono mediamente il 40 per cento mentre l’Italia ha avuto la prima presidente donna di una federazione nazionale nel 2021. In linea d'aria ci separano 2.139,39 km in termini di equità, anni luce.

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