Forse era inevitabile che nel rapido declino dell’ordine liberale anche un’aggressione infame come la “pulizia etnica” assumesse una caratterizzazione più blanda, come di evento per sua natura controverso, alla fine quasi accettabile, di sicuro sottratto alla configurazione giuridica di “genocidio”.

Ma anche con questa premessa c’è qualcosa di indecente nel dibattito che ha diviso le Nazioni unite sulla proposta di istituire la Giornata internazionale di riflessione e di commemorazione del Genocidio di Srebrenica.

La risoluzione è stata approvata di misura: 84 in favore, 19 contrari, 68 astenuti. In altre parole, la maggioranza non l’ha votata, adducendo la più varie ragioni. Le divisioni all’interno dell’Assemblea solo in parte hanno seguito confini prevedibili.

Se erano scontati l’opposizione della Serbia («È pericoloso riaprire vecchie ferite») e i no della Russia con i suoi fidi Cuba e Bielorussia, dell’Ungheria della “democrazia illiberale”, della Cina (con tortuosità mandarine: “deplorevole”, concede Pechino, il massacro di ottomila musulmani, l’intera popolazione maschile di Srebrenica, da 16 anni in su), scontato non era che alla risoluzione venissero a mancare 16 voti, dei 100 previsti dai proponenti (Germania e Ruanda).

Tanto la Ue quanto il cosiddetto Global South hanno marciato in ordine sparso. Hanno votato a favore quasi tutti gli occidentali e grandi paesi come Sudafrica, Turchia, Cile.

Nel folto gruppo degli astenuti, compaiono la Slovacchia filorussa, la Grecia e Cipro per solidarietà cristiano-ortodossa (era stata la chiesa ortodossa serba a farne una questione di religione, e alla vigilia del voto le sue chiese hanno suonato le campane a distesa per richiamare la popolazione a unirsi nella preghiera contro la “falsa e ingiusta accusa” mossa dalla risoluzione agli sterminatori, le milizie gran-serbe), molti sudamericani (Brasile e Venezuela in testa), stati islamici come gli Emirati, e vari paesi emergenti, per risentimenti talvolta comprensibili (la Namibia, per esempio, lamenta che nessuno voglia ricordare lo sterminio degli Herero, massacrati dai militari prussiani agli inizi del Novecento).

Il rifiuto di Israele

Non ha votato la risoluzione neppure Israele. Aveva scritto su Times of Israel Menachem Rosensaft, un sopravvissuto all’Olocausto: «Se condanniamo il massacro di 1.200 ebrei compiuto da Hamas come atto genocida, com’è giusto fare, abbiamo il dovere assoluto di riconoscere e commemorare come genocidi tutti gli altri crimini contro l’umanità (…). Non posso in buona coscienza condannare gli autori del genocidio in cui perirono mio fratello e i miei nonni se non condanno gli autori di tutti gli atti di genocidio, incluso il genocidio che ebbe luogo a Srebrenica».

Ma il governo Netanyahu ha tutt’altra opinione. Il suo ambasciatore a Belgrado, Jahel Vilan, ha spiegato all’agenzia di stampa russa Sputnik che Israele non ha mai accettato la caratterizzazione del massacro di Srebrenica come “genocidio”.

La comune avversione al reato di genocidio e gli otto cargo carichi di armi che Isrele ha ricevuto dalla Serbia in questi mesi non bastano però a spiegare le interessanti affinità elettive tra il nazionalismo gran-serbo e l’ultranazionalismo israeliano, quali emergono dalla recente intervista al Jerusalem Post di Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia nonché regista della “riabilitazione” dei suoi connazionali condannati per genocidio dal Tribunale dell’Aja.

Più che di intervista, si dovrebbe parlare di amichevole dialogo. Dodik può dire che il massacro di Srebrenica non fu un massacro di inermi, che comunque i musulmani di Bosnia erano e restano nazisti, che sono la longa manus dell’Iran, e “rivelazioni” consimili.

Le domande non sono meno interessanti delle risposte: «Lei ha paragonato il conflitto tra Israele e la cosiddetta Palestina alla situazione in Bosnia. La Corte internazionale di giustizia, che decise che Srebrenica fu genocidio, ora indaga la possibilità che Israele intenda commettere un genocidio a Gaza. Com’è che ogni volta che i musulmani iniziano un conflitto va a finire che sono vittime di genocidio?». «Può fare bene al mondo una vittoria di Trump nelle presidenziali?» (i serbi d’America lo voteranno entusiasticamente, assicura Dodik).

Il voto all’Onu ribadisce che l’intervista non è un incidente, semmai un esempio degli ottimi rapporti tra sostenitori della Grande Serbia e zeloti del Grande Israele. La loro comunanza trova una sponda al Cremlino, nel nome dell’avversione alle corti di giustizia e nella comune intenzione di riscrivere i confini invocando diritti storici e omogeneità etnica. Putin vuole l’Ucraina orientale, il governo israeliano il West Bank, Belgrado la repubblichetta serbo-bosniaca e il nord del Kosovo, di cui la Serbia fu amputata per una decisione occidentale indubbiamente demenziale.

Se intendiamo il voto su Srebrenica come una mozione di sfiducia nel diritto internazionale dobbiamo sospettare che impossessarsi di territori altrui presto tornerà a essere una prassi accettabile, quale non era più da sessant’anni.

Così non sorprende che, rassicurati dal voto su Srebrenica, Dodik e il presidente della Serbia, Vucic, l’8 giugno abbiano presieduto l’”Assemblea di tutti i Serbi” sparsi nei Balcani. Subito dopo Dodik ha annunciato l’intenzione di tenere un referendum sull’indipendenza della Repubblica serba di Bosnia, atto che cancellerebbe dopo 29 anni il trattato di pace.

Antidoto liberale

Aspettando Trump, Vucic è più circospetto, dovendo giocare su più tavoli. Dall’amico Putin (di cui anche Dodik si ritiene amicissimo) riceve gas a prezzo politico e armamento. Ricambia con vari favori.

Allo stesso tempo chiede l’adesione alla Ue e si sforza di non entrare in urto con i tanti europei che lo guardano con sospetto, anche per via dei brogli nelle elezioni serbe di dicembre (in cui avrebbero votato di straforo 40mila serbo-bosniaci).

Adesso avverte che la guerra in Ucraina dilagherà nella regione se entro tre o quattro mesi non si inventerà una pace. E probabilmente confida in una pace spartitoria, che riconoscendo la sovranità russa sulle regioni occupate aprirebbe a una spartizione della Bosnia.

Perché non dovrebbe sperare? Il mondo sta cambiando, i rapporti di forza anche, e con quelli la geografia ideologica. Nel generale disallineamento quale è apparso anche nel voto all’Onu è sbiadita la logica binaria cui di solito ci affidiamo: Global South e Global West, autocrazie e democrazie, destra e sinistra.

Astenuti e contrari hanno addotto motivazioni che ci suonano familiari: non ci sono un aggressore e un aggredito, quando si combatte una guerra nessuno è innocente; “colpevolizzando” l’uno e non l’altro la giustizia internazionale nuoce alla politica, che è arte del compromesso; non si può condannare una certa condotta militare se non si condannano tutti gli eventi sanguinosi occorsi in precedenza (perché condannare Srebrenica, o gli urbicidi israeliani a Gaza, o il massacro di civili a Bucha, e non le malefatte occidentali? Versione di “E allora le foibe?”, il refrain di Meloni prima di diventare Giorgia).

E poi c’è, più o meno sottintesa, l’idea che la vittima porti la macchia indelebile di un peccato originale, perché ottant’anni fa era un po’ nazista, perché è musulmana, perché è uno strumento della Nato, perché 18 anni fa votò in maggioranza per Hamas.

Un po’ di tutto questo risuona anche in Italia quando si discute di Ucraina o di Gaza, dentro la griglia nella quale forze eterogenee trovano inedite consonanze. Il loro è un vecchiume travestito da realismo, saggezza, virtù. Diventerà egemone se non troverà opposizione in un liberalismo autentico e tonico, quale finora in Italia non abbiamo visto.

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