Buffo destino quello della castagna, con un presente da prelibatezza costosa, ma con un passato da alimento per i poveri. Ma da qualche anno il raccolto (per colpa di cambiamento climatico e parassiti) non va affatto bene
La castagna, da qualche anno, si fa notare per la sua assenza. La raccolta, infatti, non va granché bene. Colpa, da un lato, del parassita Cinipede Galligeno, meglio conosciuto come vespa cinese che da anni flagella i castagneti del paese, dall’altro le condizioni climatiche che, con l’alternanza di piogge abbondanti e calura eccessiva, non creano un meteo ideale per questa specie arborea. Al di là della fluttuazione del raccolto c’è da dire che questo prodotto compare sui banchi dei mercati, come su quelli della grande distribuzione, con prezzi altissimi.
Ragionamento che vale ancor di più per le caldarroste vendute in strada o per i pregiati marron glacé, da acquistare singoli visto che il prezzo al chilo va dagli 80 ai 100 euro.
Buffo destino quello della castagna, con un presente da prelibatezza costosa, ma con un passato da alimento per i poveri. Il castagno, infatti, era conosciuto come l’albero del pane, perché la farina di castagne sostituiva la più rara farina di grano. È un racconto che appartiene agli Appennini, alla gente di montagna che si sostentava con ciò che davano i boschi più che con quello che arrivava dai campi arati in pianura.
Una vita vissuta tra i 300 e i 1000 metri, dall’Appennino ligure fino a quello calabro, con un salto sull’Etna dove ancora oggi sopravvivono due castagni ultra-millenari, il castagno della Nave a Mascali e il castagno dei Cento cavalli a Sant’Alfio.
Per Giovanni Pascoli
Il castagno è un po’ come il maiale, dell’albero non si butta via niente e in più ha una capacità di adattamento non consueta nel mondo arboreo. Lo spiega bene il professore Giuseppe Barbera, professore ordinario di Colture Arboree presso l’università di Palermo.
Nel suo libro Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura, racconta come il castagno fuoriesca dai limiti assegnati dalla selvicoltura per la sua naturale versatilità a caratteristiche ambientali diverse, ma anche per gli strettissimi legami con l’uomo che per necessità ne aveva portato la coltivazione ovunque fosse possibile: «Il poeta Giovanni Pascoli lo chiamava “l’italico albero del pane”», continua il professore, «e in effetti, da millenni, il castagno è stato coltivato per il legno e per i frutti che hanno costituito elemento essenziale della dieta di chi viveva in montagna, fino a rappresentare, anche per sei mesi l’anno, l’alimento principale».
E se oggi le foglie non sono più usate per la lettiera del bestiame o per i materassi (e un tempo anche il tannino era utilizzato per la concia delle pelli), esiste però il progetto Reaction con il contributo congiunto di Unione europea, stato italiano e regione Piemonte che ha l’obiettivo di trasformare in biomassa gli scarti del castagneto.
Economia della relazione
Parlare ancora di “società della castagna” sarebbe un falso storico, ma un’economia legata ai castagneti può essere rilanciata. Di certo l’idea piace a Davide Borghi, arboricoltore di Modena che a lungo si è preso cura dei castagni dell’Appennino bolognese. L’abbandono del castagneto però, per chi lavora tra questi alberi, è evidente. «Più che alla vespa cinese o ad alcune patologie del legno», spiega Borghi, «il fenomeno va addebitato allo spopolamento delle aree di media montagna e alla scelta di convertire le aree dedicate ai castagni in prati e pascoli. C’è poi il cambiamento climatico con temperature alte fino ad autunno che rallentano la caduta del frutto che arriva in terra già marcescente. Anche l’eccesso di pioggia in primavera ha una ricaduta negativa sulla fioritura, compromettendo il raccolto dei frutti».
L’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste riporta che in Italia il castagno è presente su 780mila ettari, ma meno del 20 per cento è destinato a castagneti da frutto. La partita si gioca nella relazione costruttiva tra sistemi forestali e comunità che hanno modo e voglia di valorizzare un prodotto identitario. Fabio Bertolucci, proprietario del Forno in Canoàra, la chiama “economia della relazione”.
Il fornaio dal 2008 sforna la Marocca di Casola, un pane presidio Slow Food che prende il nome dall’omonimo borgo della Lunigiana. La castagna, mescolata a quel poco di grano che queste terre montuose permettevano di ottenere, ha dato origine a questo pane che è diventato anche il simbolo di una rete di produttori che si snoda tra Toscana, Liguria ed Emilia-Romagna.
Molte di queste realtà ricadono all’interno del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, ente impegnato nel recupero dei metati, case in pietra a due piani utilizzati in passato per l’essicazione e l’affumicatura delle castagne e oggi convertiti a uso ricettivo come è successo per alcune casette in sasso in Val Bratica.
Piace agli chef
Priva di glutine e quindi adatta ai celiaci, la farina di castagne ha un bel colore avorio, è ricca di carboidrati ma anche di sali minerali. Ottima nei dolci, si presta anche alle preparazioni salate. Ne lavora tanta Simone Circiella, cuoco de La Brinca, storica trattoria in Val Graveglia, nell’entroterra genovese.
La familiarità con i castagneti da queste parti è cosa diffusa e nel menu del locale la castagna c’è dal 1987, anno di apertura: «Ne consumiamo circa due quintali all’anno», racconta lo chef, «ci facciamo il nostro Pan Martin, gli gnocchetti e le Picagge, delle tagliatelle larghe, che condiamo con il pesto e la Prescinseua, un formaggio a cagliata acida che spezza la dolcezza della farina. Alcune delle nostre torte salate, che sono tipiche della cucina ligure, sono fatte con la farina di castagne, come il castagnaccio che da noi si chiama panella e che si prepara con finocchietto e rosmarino. Non a caso la tradizione culinaria regionale è da sempre ibrida e si muove tra il dolce e il salato».
Circiella vive in prima persona lo spopolamento della valle e La Brinca è impegnata da tempo, attraverso una filiera locale di acquisto, nella valorizzazione dei prodotti gastronomici del territorio: «Sono tornati a funzionare un po’ di essiccatoi e le castagne così lavorate vengono conferite a un molino a Càlvari in Val Fontanabuona».
Michele Lazzarini, neostellato chef del ristorante Contrada Bricconi di Oltressenda Alta in provincia di Bergamo, ha messo in carta, da poche settimane, il tagliolino di farine di castagne, uova delle nostre trote, aghi di abete e salsa di salmì di cervo. Un piatto realmente a chilometro zero: «Le castagne», racconta Lazzarini, «sono quelle che raccogliamo nei dintorni della contrada».
Tostiamo parte della farina per ricordare il profumo delle caldarroste. Compreremo, a breve, la farina anche da un piccolo mulino dedicato solo alla macina delle castagne che si trova ad Averara, un borgo minuscolo in Val Brembana». Altro fornitore di Contrada Bricconi è l’azienda agricola Ronchello di Gandellino con il loro miele biologico di castagno: «Lo uso nei dolci ma anche nei lievitati», continua lo chef, «perché mi piace il suo sapore intenso e un po’ amaro. Del castagno poi vanno considerati i fiori: in primavera ci facciamo il gelato, mettendo in infusione le infiorescenze nel latte. Si ottiene un gelato dal profumo di polline intensissimo».
© Riproduzione riservata